Uno dei pochi ricordi delle austere lezioni universitarie di diritto che seguivo nel 1968, mentre nei chiostri della Statale risuonavano i primi slogan della contestazione, è nella solenne affermazione secondo cui la proprietà privata di un terreno si estende “Usque ad sidera, usque ad inferos” fino alle stelle e fino agli inferi, cioè è una proprietà completa e inviolabile. Una definizione giuridica, tramandata dal diritto romano, che si è andata tuttavia stemperando nel corso dei secoli. La Costituzione italiana all’art. 42 afferma che “la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge”, ma immediatamente dopo sostiene la necessità “di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti” e inoltre può essere “espropriata per motivi d’interesse generale”.



Che la proprietà privata possa avere dei limiti, soprattutto se “limitati”, è ormai un dato di fatto acquisito e riconosciuto nelle società democratiche. Basti pensare alla battaglia contro i monopoli, una battaglia fondamentale per non veder annullate le regole del mercato. Anche a livello teologico e morale il richiamo di papa Francesco in molti interventi, tra cui l’ultima enciclica “Fratelli tutti”, va nella direzione della necessità di limitare i diritti di proprietà di fronte a superiore necessità di giustizia sociale.



Il problema di fondo sta tuttavia in quella parola “limiti”, un concetto che deve garantire un equilibrio dinamico tra l’interesse generale e quello dei singoli, dove l’interesse generale è anche, e forse soprattutto, quello che la società si sviluppi, sia innovativa, crei ricchezza. Tutte cose che non nascono con la bacchetta magica o con un decreto, ma richiedono la motivazione interessata e la responsabilità di tutte le componenti della società. 

Come coniugare due elementi ugualmente indispensabili: l’iniziativa individuale, strettamente collegata con la proprietà privata, e la giustizia sociale, per la quale una parte rilevante del pensiero corrente ritiene indispensabile un intervento dall’alto, una manovra alla Robin Hood per togliere ai ricchi e dare ai poveri? Il pensiero economico ha sempre oscillato tra i due estremi: tra il liberalismo e un comunismo, che sconfitto dalla storia nella sua applicazione più rigida, si è trasformato in statalismo accomunando paradossalmente la destra, la sinistra e i movimenti senza radici.



Una guida preziosa per approfondire questo tema la si può fortunatamente trovare nell’ultimo libro di Alberto Mingardi, fondatore e direttore dell’Istituto Bruno Leoni, un libro dal titolo altrettanto accattivante quanto misterioso: “Contro la tribù. Hayek, la giustizia sociale e i sentieri di montagna” (Ed. Marsilio, pagg. 368, € 16). Perché Friedrich A. von Hayek, il maggior pensatore liberale del secolo scorso, e un tema fondamentale come la giustizia sociale, stanno in mezzo tra la tribù e i sentieri di montagna? 

La tribù è il modo di pensare e di agire dei piccoli gruppi guidati da un capopopolo che si difendono da tutto e da tutti “con un generale sentimento di ostilità verso gli altri che prelude a tentativi di sopraffazione”. I sentieri di montagna sono una metafora per indicare dei percorsi che non vengono disegnati a tavolino, ma “impronte e solchi nella terra che, col passar del tempo e il transito di persone e carri, diventano sentieri sempre più definiti.” Due immagini contrapposte: la tribù, rigidamente e gerarchicamente organizzata; i sentieri che si definiscono lentamente, per consuetudini successive, disegnati dall’esperienza e dalla fatica.

Due immagini che danno visivamente l’idea di come la tribù costituisca la tentazione perenne, il desiderio di un rifugio, l’ansia di barattare una presunta sicurezza con la libertà, l’illusione che sia più costruttivo avere qualcuno che decida a nome di tutti invece che praticare il faticoso esercizio della democrazia. Mentre i sentieri di montagna sono, per loro natura, più faticosi e spesso difficili, ma sono tracciati dal cammino e dalle conquiste delle generazioni che ci hanno preceduto.

E allora la lezione di Hayek, che costituisce il filo conduttore del libro, appare importante non tanto perché offra delle soluzioni, ma soprattutto perché indica un metodo perché “il liberalismo è l’esito di un’esperienza storica” che può e deve continuare perché “dovremmo avere imparato abbastanza da evitare di distruggere la nostra civiltà col far scomparire il processo spontaneo di interazione tra gli individui per sottoporlo alla direzione di una qualche autorità”. E la giustizia sociale resta un obiettivo, ma non nasce da un atto di autorità, dalle limitazioni delle libertà o delle proprietà, ma nasce dalla responsabilità solidale, dalla cultura, dalla capacità di innovare e di produrre ricchezza.