Gustavo Zagrebelsky non è mai stato magistrato ordinario, ma solo costituzionale. Né il giurista torinese è citato – come Franco Cordero e Stefano Rodotà – fra i padri spirituali di Magistratura Democratica, la corrente più antica, prestigiosa e potente della corporazione giudiziaria italiana. Eppure il titolo del corsivo di Zagrebelsky su Repubblica di sabato (“Punire o salvare? Il dilemma della giustizia”) è esattamente la domanda su cui MD è nata a metà anni 60 del secolo scorso.
È il filo di un lunghissimo discorso intrecciato fra politica e giustizia, che ha sempre più modellato la storia italiana recente. È l’affermazione – fondativa in sé – del diritto-dovere dei magistrati di “fare politica”: di detenere anzi una sorta di primato sugli altri due poteri dello Stato, politici per definizione costituzionale. L’attività di inquirenti e magistrati risulta in questo quadro la vera incarnazione della democrazia materiale; la giustizia come vera e profonda coscienza civile della Repubblica.
È un ideale tuttora tale per i suoi sostenitori – che attribuisce alla magistratura capacità realizzative delle libertà costituzionali nella società nazionale superiori a quella concretamente mostrate da parlamentari eletti e governi. Per i detrattori è invece un’ideologia al servizio di un disegno di potere, dapprima politico poi addirittura istituzionale. MD – la corrente di sinistra – è stata in ogni caso la pioniera del principio che la giustizia non debba punire se non i “ricchi e potenti” (spesso quelli del momento e comunque mai tutti). I “poveri e deboli” – almeno quelli identificato come tali dai magistrati – vanno invece sempre tutelati e “salvati”: anche quando finiscono sul banco degli imputati.
Fra le “categorie fragili” che il Magistrato Democratico deve “salvare” non sono certo marginali i detenuti: che pure lo stesso magistrato ha condannato. Per questo non ha stupito che – sempre su Repubblica di sabato – un cavallo di razza di MD (l’ex procuratore capo di Milano, Edmondo Bruti Liberati) abbia vergato un puntuto ricordo personale: quello di una lontana rivolta nel carcere milanese di San Vittore, che vide il giovane Bruti Liberati in prima linea come magistrato di sorveglianza.
È legittimo l’orgoglio con il quale viene rievocata la soluzione di una crisi grave ma non sfociata in dramma: come invece è accaduto nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Ma quell’orgoglio viene utilizzato da un veterano di MD come sempre: per affermare una superiorità morale inappellabile. La giustizia funziona solo se amministrata da magistrati “iscritti” a una cultura politica, a una corrente che enfatizza l’appartenenza politica rispetto alla professionalità istituzionale. È in ogni “caso contrario” – come quello del carcere campano negli anni del pentastellato Bonafede al ministero della Giustizia – che l’ordine giudiziario cessa di essere “democratico”. E quindi: è il ministro della Giustizia Marta Cartabia – che sta tirando le file di un’impegnativa riforma dell’ordine giudiziario – a sbagliare quando non ascolta il predecessore Zagrebelsky o ex magistrati come Bruti Liberati, che le ripetono da settimane che sta sbagliando. Che sbaglia nell’intento stesso di voler riformare “dall’esterno” (“dalla politica”) la giustizia italiana. Che invece non ha nessun bisogno di essere cambiata. Va bene così com’è. Basta continuare a lasciar fare a MD: che sarà invecchiata e chiusa nella sua trincea, ma non ha perduto un grammo del suo orgoglio ideologico.
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