Con il finire dell’anno è tempo di bilanci e quello della giustizia mostra un saldo ancora negativo. La riforma del ministro Nordio arranca e le prospettive anche per l’anno prossimo non sembrano delle migliori. Proviamo a fare il punto della situazione.
Il disegno di legge varato il 15 giugno dal Consiglio dei ministri, che doveva costituire il primo step della riforma prevedendo, sul versante del codice penale, la cancellazione del reato di abuso d’ufficio e la restrizione del perimetro del reato di traffico di influenze, mentre sul versante processuale, fra le altre, il divieto di pubblicazione delle intercettazioni e l’istituzione del gip collegiale per decidere sull’applicazione delle misure cautelari custodiali, è rimasto completamente impantanato: bloccato prima per due mesi alla Ragioneria dello Stato, è arrivato a fine luglio al Senato per essere poi mestamente chiuso in un cassetto della commissione Giustizia; se ne riparlerà, forse, a gennaio.
Benché già calendarizzato alla Camera, anche il voto sulla riforma (della riforma) della prescrizione che prevede ritorno alla prescrizione sostanziale con l’abolizione della improcedibilità, è inopinatamente slittato a dopo le feste, probabilmente anche a causa del documento firmato dai 26 presidenti delle Corti di appello che ne evidenziava le criticità applicative.
Non è andata infine meglio alla tanto sbandierata separazione delle carriere, al momento del tutto sparita dai radar parlamentari, con tanto di precisazione dello stesso ministro che ha formalmente dichiarato come occorrerà aspettare almeno la primavera per la formale presentazione della proposta di riforma costituzionale.
Le cause di questi continui rinvii possono essere individuate in due fattori.
Per un verso, nella maggioranza di governo convivono sensibilità diverse, mentre per l’altro la premier ha più volte palesato di non avere alcuna fretta nel procedere lungo la strada delle riforme anche per non acuire lo scontro con la magistratura. Chi appare più in difficoltà è il ministro Nordio. I toni perentori dell’inizio si sono tramutati in più prudenziali “vedremo”, senza che ciò, per carità, debba meravigliare più di tanto: quando si arriva a governare, la logica dei compromessi deve prevalere rispetto alle nette affermazioni dell’addetto ai lavori, ma purtroppo la quotidianità dei tribunali ci restituisce una situazione di grande confusione e difficoltà. Se per un verso il guardasigilli continua a ribadire l’affermazione che la giurisdizione, dal latino ius dicere, compete solo al giudice, oppure, se la s’intende come esito di una dialettica, deve per forza vedere la compartecipazione non di due ma di tre componenti, anche dell’avvocatura quindi, oltre che dei magistrati giudicanti e dei pm, alimentando ciò che si definisce la premessa ontologica per la riforma costituzionale della giustizia, che Nordio tiene ben ancorata alla necessaria “pari dignità” nel processo, per altro verso prevale nelle azioni concrete una certa linea di prudenza, acuita da un certo clima pre-elettorale che spinge a ritenere che il governo si guarderà bene del partorire rivoluzioni, facendo così la gioia della magistratura la cui bocciatura totale, espressa in più occasioni dall’Associazione nazionale magistrati, pensa non poco in questo gioco di equilibri.
Per quel poco che si è prodotto in concreto, in scia alla precedente riforma Cartabia, come ad esempio i decreti attuativi sul nuovo fascicolo di valutazione – che già aveva portato, un anno fa, allo sciopero –, si è prontamente invocata da parte della magistratura l’immancabile chiamata alle armi. Proprio su questo aspetto vorremmo soffermare l’attenzione come emblema delle sabbie mobili cui siamo condannati.
Invero, ai ripetuti allarmi dell’Anm con annesse previsioni apocalittiche corrisponde nella sostanza l’assoluta inadeguatezza dell’amministrazione ad attuare l’evocato fascicolo di valutazione: per misurare davvero la professionalità dei magistrati servirebbe un sistema informatico che per ora, al Csm come al ministero, esiste solo sulla carta. Nel decreto attuativo si legge, tra l’altro, che la valutazione di professionalità “è operata secondo parametri oggettivi che sono indicati dal Csm” e che Palazzo dei Marescialli “disciplina con propria delibera gli elementi in base ai quali devono essere espresse le valutazioni”. La mole di dati da raccogliere nel nuovo “fascicolo del magistrato” si prefigura abbastanza copiosa ma tuttavia, ad oggi, ci sono molte lacune nel sistema informatico che, ad esempio, non è in grado di elaborare statistiche con gli stessi parametri rispetto a tutti i distretti.
Senza entrare troppo nel tecnicismo legato alle diverse applicazioni circa la gestione del registro degli indagati, la criticità risiede nella mancanza di prassi condivise, sicché occorrono fondi, tempo, capacità e personale adatto per gestire una macchina informatica del genere e saper sistematizzare tutte le fonti.
In questo scenario assai poco rassicurante, si è anche consumato l’affaire Crosetto, altro emblema dello stato di crisi del sistema giustizia. Chiarito che il suo non era stato un attacco ma mere riflessioni e preoccupazioni riguardo ad alcune tendenze emerse, a suo dire, non in modo carbonaro ma in modo molto evidente, la proposta della costruzione di un tavolo di pace nel quale si potessero definire le regole per la convivenza nei prossimi anni al fine di evitare quello scontro che si reitera dal ’94 a oggi è stata prontamente rispedita al mittente dall’Anm, con la precisazione che non è in corso nessuna guerra. Lo scandalo Palamara è passato invano e si continua a far finta che vada tutto bene.
Il più che fondato timore che Babbo Natale sia stato particolarmente avaro nei confronti della giustizia fa capolino anche nei più ottimisti, e nel frattempo noi cittadini saremo ancora costretti a fare i conti con un servizio che tanto risulta delicato per la pacifica convivenza quanto inefficace nella sua capacità di assicurare giustizia in tempi certi. Non ci resta che sperare nella Befana.
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