La giustizia riparativa, tra le innovazioni più significative dal punto di vista culturale del processo penale, è a dir poco complessa. Non c’è margine di attuazione concreta e il contesto normativo è già oggetto di censure. Lo conferma l’ordinanza del tribunale di Genova dello scorso 21 novembre, con cui ha respinto la richiesta di accesso a un programma di giustizia riparativa richiesta dalla difesa dell’imputato. Stando a quanto riportato dal Sole 24 Ore, è impraticabile a livello pratico, perché manca un Centro di giustizia riparativa. Per la difesa si poteva risolvere utilizzando strutture già presenti sul territorio, ma per l’autorità giudiziaria ligure è irricevibile tale proposta, perché solo la Conferenza locale per la giustizia riparativa può individuare gli enti locali, per ogni distretto di Corte d’appello, a cui affidare il compito di istituire i centri.



«L’attività di mediazione non si improvvisa, ma deve essere preceduta da un’adeguata formazione e sottoposta a controlli continui a livello sia statale sia locale», spiegano i giudici del tribunale di Genova. Solo i Centri possono effettuare l’attività prevista dalla riforma, a cui sono collegati i risultati eventualmente positivi per l’imputato. Di conseguenza, «ogni altro organismo di mediazione eventualmente esistente sul territorio non ha alcuna competenza in riferimento al nuovo istituto». Inoltre, le vittime di reati e autori delle offese non possono essere mandati a mediatori che non hanno la preparazione prevista dalla riforma, neppure affidandosi a figure già operative sul territorio.



“MANCANO CENTRI, DISCIPLINA INAPPLICABILE ANCHE NEI FATTI”

Ma non è finita qui. Dal punto di vista normativo, l’ordinanza del tribunale di Genova evidenzia che la disciplina italiana contrasta con quella comunitaria. Nello specifico con la direttiva Ue del 2012. La disciplina europea valorizza lo scopo di tutelare solo l’interesse della vittima, la possibilità di procedere solo col consenso, libero e informato, della stessa vittima. Per la direttiva poi l’autore del reato deve aver riconosciuto i fatti essenziali. Il decreto legislativo 150 del 2022 stabilisce che il giudice può mandare le parti d’ufficio al Centro, senza il consenso della vittima, ed è superfluo il riconoscimento di responsabilità o della sequenza dei fatti. Il decreto prevede anche l’ascolto delle parti, cioè della parte civile, ma non pure quello della vittima per decidere l’invio al Centro.



La conclusione sul punto dei giudici liguri è netta: «Si assiste, pertanto, ad una patente violazione di norme eurounitarie e ad una ulteriore, profonda, immotivata frattura tra la normativa italiana e quella europea, con evidente possibilità di sottoporre la vittima del reato a una vittimizzazione secondaria, particolarmente odiosa perché posta in essere dall’autorità giudiziaria che dovrebbe tutelare la persona offesa/vittima del reato». Il decreto si rivela carente, infatti emerge un problema di coerenza con la legge delega a monte che aveva ben presente la necessità del rispetto della direttiva Ue, richiamandola espressamente. Un richiamo che rende inutile sottolineare, conclude il Sole 24 Ore, la visione “vittimocentrica” della stessa direttiva.