Dopo una lunga gestazione a causa delle non semplici trattative con i partiti della maggioranza, il terzo provvedimento del cosiddetto “pacchetto giustizia” è stato approvato pochi giorni fa dalla Camera ed è ora atteso al Senato, dove il governo punta ad ottenere un rapido lasciapassare. Mentre quindi la riforma del Consiglio superiore della magistratura e della legge sull’ordinamento giudiziario è a metà del suo cammino parlamentare, esplode l’agitazione dell’Associazione nazionale magistrati che ieri, dopo una assemblea durata oltre 8 ore, ha proclamato a larga maggioranza lo sciopero, il primo dai tempi dei governi Berlusconi.



Evidentemente, le parole della ministra, che aveva evidenziato come fosse stata votata in Parlamento la riforma migliore possibile, non sono state condivise dai magistrati che al contrario protestano, hanno a loro volta affermato, per poter riuscire ad essere ascoltati. Invero, in molti, pur nella generale perplessità, avevano opportunamente evidenziato che con una maggioranza di governo così eterogenea come quella attuale, era davvero impensabile riuscire a portare a termine un risultato migliore. D’altronde, non lo dimentichiamo, le approntate riforme hanno visto la luce unicamente in virtù degli impegni assunti con l’Europa; senza tale obbligo, ne siamo certi, un governo di così larghe intese mai sarebbe stato in grado di mettere mano al tema della giustizia.



Se quindi l’avvocatura e l’accademia ritengono che quella varata debba essere considerata una mini-riforma, se non una riforma di assai scarso impatto concreto, la magistratura italiana la considera, al contrario, pericolosa.

Proviamo allora a fare chiarezza. Il punto è intendersi sulle parole, o meglio sugli obiettivi. Se l’obiettivo era il raggiungimento del formale rispetto degli obblighi assunti con l’Europa, allora occorre congratularsi per il risultato ottenuto; se invece lo scopo era quello di migliorare realmente un sistema che gira in buona parte a vuoto, mettendo al contempo un freno alla deriva dell’autogoverno della magistratura, ebbene in questo caso siamo ai soliti pannicelli caldi.



Sulla nuova legge elettorale dell’organo di autogoverno ci siamo già espressi in passato, sottolineando che le modifiche introdotte, oltre che alquanto cervellotiche, sono scarsamente idonee a fermare la deriva correntizia. Vasto consenso ha invece raccolto la scelta di restringere al massimo le sovrapposizioni tra mandato politico e funzioni giudiziarie, prevedendosi innanzitutto che non sarà più possibile esercitarli nello stesso tempo, nemmeno in distretti diversi. In caso di mancata elezione, non si potrà rientrare in ruolo nella stessa circoscrizione in cui ci si è candidati né nel distretto in cui si esercitavano le funzioni all’atto della candidatura; se invece si viene eletti, il rientro nelle aule giudiziarie sarà precluso per sempre, cosicché i magistrati saranno collocati in appositi ruoli.

Terreno di eterno scontro fra le spinte alla separazione delle carriere, che contraddistingue i sistemi accusatori come il nostro, e la cultura della giurisdizione che sarebbe favorita dalla fisiologica osmosi di esperienze, la nuova disposizione che limiterà ulteriormente il passaggio di funzione tra pm e giudice o viceversa risulta francamente contraddistinta da un certo valore simbolico ma di assai scarso impatto pratico, stante la ridottissima casistica che oramai si registra già.

Il vero punto dolente è invece l’istituzione del fascicolo per la valutazione che raccoglie le statistiche sulla conferma delle sentenze e l’accoglimento delle richieste cautelari. Ciò che per i partiti della maggioranza è strumento di efficientamento del sistema, per la magistratura incarna l’attacco alla sua indipendenza, costituendo uno strumento di controllo ispirato dalla volontà di trasformare i magistrati in burocrati, piegandoli a forme di conformismo giudiziario e di soggezione ai capi degli uffici, mortificando la vitalità dell’interpretazione normativa in grado di assecondare l’evolversi della società e le istanze di tutela dei cittadini.

È davvero così? Partirei da una premessa, anche se essa potrà far storcere la bocca a qualcuno, ovvero che, al di là degli impegni europei, lo scopo della riforma deve essere individuato tanto nella ricerca di un efficientamento del sistema, quanto nel pieno recupero della fiducia dei cittadini nei giudici; fiducia che, come noto, negli ultimi dieci anni è fortemente diminuita evidentemente non a caso.

Nessuno dubita che la giustizia debba essere indipendente e imparziale, né si vuole obliterare il senso di riconoscimento che i cittadini italiani devono ai magistrati per il loro impegno e per i sacrifici da molti di loro compiuti sui diversi fronti della lotta alle criminalità mafiose ed economiche. Tuttavia, se non si contesta che un docente universitario, per salire i gradini della carriera, debba essere sottoposto a criteri di valutazione dei suoi scritti per saggiarne la capacità di penetrazione nella comunità scientifica di appartenenza, non si comprende perché un magistrato non debba essere valutato nella sua capacità di redazione di atti giudiziari idonei a superare i successivi vagli giurisdizionali.

Non si può, di converso, continuare ad ignorare che in questi anni abbiamo assistito a troppe inchieste bizzarre, quando non strumentali, che sono poi franate nei successivi passaggi valutativi, lasciando tuttavia alle spalle una lunga scia di danni di non scarso rilievo sulla vita delle persone coinvolte. Se la mancata previsione della responsabilità civile di tipo diretto è già una forma (legittima?) di guarentigia di cui non dispongono altre importanti figure professionali come i medici, ad esempio, non si comprende perché non debba essere legittimo che almeno sul mero fronte delle progressioni di carriera vengano valutate le performance dei singoli magistrati.

L’indipendenza della magistratura, che per la nostra Costituzione è una priorità assoluta, con il trascorrere degli anni si è sempre più evoluta in una forma di autonomia e indipendenza del singolo magistrato non solo nei confronti di altri soggetti pubblici, ma pure nei confronti di qualsiasi altro appartenente allo stesso ordine giudiziario, con l’inevitabile abbandono di qualsiasi forma di gerarchia. Tale evoluzione, se per un verso ha avuto il grande merito di favorire, negli anni 70, la giurisprudenza volta alla tutela dei diritti civili e poi, negli anni 90, fenomeni come Mani pulite e la stagione della lotta alla mafia siciliana, per altro verso, negli ultimi anni, ha fatto emergere incrostazioni e criticità che ne sono, ahinoi, il rovescio della medaglia, con inevitabili ricadute sull’organizzazione e sull’efficienza del sistema.

Occorre allora francamente superare l’idea che il magistrato, vincendo il concorso è, solo per tal ragione, uguale a qualsiasi suo collega e pertanto è legittimato a ritenere un’indebita intrusione la possibilità che egli sia sottoposto a valutazioni cui possano concorrere anche soggetti estranei, come gli avvocati.

Certo, se il Csm funzionasse come un vero collegio di ponderazione delle qualità e del merito dei magistrati, valutando il loro curriculum, giudicando la loro opera, scegliendo su base comparativa e secondo il criterio del merito, il problema non si sarebbe posto a monte. È altrettanto vero che non si può avere alcuna certezza che le modifiche introdotte realizzeranno questo obiettivo, anzi. Tuttavia, e su questo non si può dubitare, il tentativo di scuotere un sistema in evidente stallo, andava fatto. D’altronde, se in queste settimane giuristi del calibro di Violante, Flick, Cassese, Spangher, Verde, pur sollevando non poche critiche sull’impostazione della riforma, si sono espressi con forza contro le posizioni assunte dall’Anm, qualche ragione dovrà pur esserci e non certo quella di mettere in discussione quanto prevede la Costituzione circa l’indipendenza e l’autonomia esterna e interna della magistratura.

Certo, siamo in presenza di un paradosso: mentre tutti sono più o meno convinti che questa riforma avrà scarsa incidenza sull’efficienza del sistema, essa viene così duramente contestata dai giudici, da far sorgere più di un timore che la loro ultima presa di posizione raggiungerà unicamente lo scopo di allontanare ancor di più l’obiettivo di riconquistare quella fiducia tristemente dispersa negli ultimi anni. Mala tempora currunt.

Eppure, questa legislatura che era iniziata con l’approvazione della legge “spazzacorrotti” e quella sul “fine processo mai”, sta vivendo, nonostante tutto, un trend in lento ma progressivo miglioramento. In fondo, non bisogna mai perdere la speranza nel ravvedimento operoso.