Oggi è il secondo giorno di astensione degli avvocati penalisti, che nella sostanza chiedono al governo e al ministro Nordio di non retrocedere dagli intenti manifestati in campagna elettorale a fronte di una conclamata contrarietà della magistratura. Anche l’accademia lamenta una certa inerzia del governo, e il presidente dell’associazione dei professori di procedura penale ha preso su queste pagine una posizione molto netta.
È utile allora ascoltare la voce della magistratura, rivolgendoci tuttavia fuori dal perimetro di quella militante dell’Anm, per provare a comprendere le ragioni della resistenza che viene sollevata, in particolare, in merito alla separazione delle carriere.
Ci siamo così rivolti a Maria Luisa Miranda, giudice dell’ufficio gip a Napoli ma in passato anche pm alla Dda di Reggio Calabria.
Lei che ha ricoperto il doppio ruolo, che ne pensa della possibilità di giungere alla separazione delle carriere, ovvero il principale o uno dei principali cavalli di battaglia di questo governo in materia di riforma della giustizia?
Di primo acchito, potrei limitarmi a ricordare che sulla separazione delle carriere c’è stato un referendum che non ha raggiunto il quorum prescritto, quindi i rappresentati del popolo, prima di tutto, dovrebbero rispettare il volere del popolo che si è espresso attraverso il non voto. Ciò detto, si continua a dire, anche da esperti del settore come lei, che il processo accusatorio “richiede” la separazione delle carriere, per equiparare il nostro processo a quello degli altri Paesi che hanno adottato il medesimo sistema.
E la sua opinione?
Io ritengo che questa sia un’affermazione errata. In primo luogo, in molti altri Paesi, anche europei, ove vige il processo accusatorio, ad es. in Belgio, per molto tempo agli onori della cronaca per le indagini sul Parlamento europeo, non c’è alcuna separazione delle carriere, anzi viene incentivato il cambio di funzioni. In ogni caso essa sarebbe errata anche perché è L’Europa che ce lo chiede.
Faccio fatica a seguirla.
Il comitato dei ministri, con la raccomandazione adottata dal comitato il 6 ottobre 2000, rivolta agli Stati membri sul ruolo del pubblico ministero nell’ordinamento penale, nella 724esima riunione dei delegati dei ministri, esplicitamente, invitava gli Stati ad adottare provvedimenti concreti al fine di consentire ad una stessa persona di svolgere successivamente le funzioni di pubblico ministero e quelle di giudice, o viceversa. Posso citare le parole testali?
Prego.
Espressamente disponeva che “se l’ordinamento giuridico lo consente, gli Stati devono prendere provvedimenti concreti al fine di consentire ad una stessa persona di svolgere successivamente le funzioni di Pubblico ministero e quelle di giudice, o viceversa. Tali cambiamenti di funzione possono intervenire solo su richiesta formale della persona interessata e nel rispetto delle garanzie”. Quindi, l’Europa chiede una cosa, noi ne facciamo un’altra.
Personalmente ritengo che l’auspicio formulato dal comitato attenga ad uno scenario diverso. L’Europa non impone la scelta dei modelli processuali, che di contro devono avere una loro coerenza. In Europa prevale ancora il modello inquisitorio misto, come in Francia o in Germania. Il ministro Nordio, in un’intervista rilasciata al quotidiano Libero il 4 gennaio 2023, ha detto che “la ragione di fondo per cui ci si oppone alla separazione delle carriere è perché si vogliono mantenere il potere e i benefit che ci sono” e si tratta “di un beneficio professionale che non tutti hanno e che dovrebbe essere compensato”. Non potrebbe essere questa la vera ragione di una resistenza così radicata?
Ma quali sono questi benefit? E qual è il beneficio professionale? Io veramente non capisco, perché nella realtà è esattamente il contrario quello che accade: cambiare funzioni richiede un maggiore impegno da parte del magistrato che lo affronta e l’unico beneficio che ne consegue è un arricchimento professionale; che comporta, però, un beneficio per il sistema, non certo per il singolo.
In che cosa consisterebbe questo arricchimento professionale?
Un pm che sa come ragiona un giudice, e sa ragionare come lui, sarà più affidabile nel verificare la saldezza della propria ipotesi di accusa prima di portarla al vaglio del giudice. Un giudice che ha svolto le funzioni di pm è un giudice che ben sa che l’inquirente non è un avvocato dell’accusa, non ha il dovere di portare a casa la condanna, ma ha l’obbligo di indagare per la verità, quindi anche cercando le prove a favore dell’indagato, e soprattutto sa quali accertamenti andavano fatti che invece non sono stati fatti. Veramente non riesco a capire quali sono i benefit a cui ci si riferisce il ministro.
È problematico comprendere le ragioni di tanto ostracismo, anche in considerazione del fatto che alla fine dei conti sono pochissimi i passaggi di carriere dopo le modifiche degli ultimi anni.
Lei ha ragione da questo punto di vista. Come ha ricordato, con la riforma Castelli del 2006, che ha reso il passaggio dal ruolo di pm a quello di giudice e viceversa già parecchio scomodo, il passaggio di funzioni è drasticamente calato, siamo intorno allo 0,21% per i requirenti e allo 0,83% per i giudicanti; quindi, dico io a lei che se queste sono le percentuali, quello della separazione delle carriere dovrebbe essere un falso problema. Ma così non è. Anzi se ne continua a parlare spesso e molto. Questo lascia dedurre solo una cosa, ovvero che, in realtà, dietro il tema tecnico, ormai statisticamente marginale, di permettere o non permettere a pm e giudici di passare da una funzione all’altra, si nasconda ben altro.
E quale sarebbe il vero obiettivo?
Si vuole cominciare da qui per assoggettare progressivamente l’ufficio del pm all’esecutivo, col risultato che a quel punto saranno i Governi a decidere di volta in volta, a seconda dello schieramento, quali indagini il pm deve seguire e quali no, quali reati perseguire e quali no.
Questo timore agita i pensieri anche dei docenti, che di certo non immaginano un pm sottoposto all’esecutivo. Pensi che poco meno di trent’anni fa la mia tesi di laurea fu sulla separazione delle carriere e sulla separazione del Csm in due sezioni autonome. Quindi separazione delle carriere non è per forza sinonimo di assoggettamento del pm al governo.
Ne prendo atto. La pregherei però di riflettere su un punto. Il finto sospetto che l’appartenere alla stessa carriera determini un giudice meglio disposto verso il pm che verso l’avvocato difensore, dovrebbe portare le stesse persone ad affermare che è necessario separare anche le carriere di giudici di primo da quelli di secondo grado e gli stessi dalla Cassazione, che ovviamente appartengono allo stesso ordinamento, visto che in caso di condanna è di certo più importante avere un giudice superiore “separato” che un pm separato. Ebbene, questa separazione non è stata mai chiesta. Dunque, mi permetto di insistere, ben altro è quello che si vuole raggiungere.
Se io potessi assicurarle che la separazione delle carriere non porterebbe al controllo governativo del pm, lei sarebbe sempre convinta della necessità di mantenere le carriere, il concorso e la formazione unite come adesso? Non ritiene che ciò di per sé rappresenti un disequilibrio del sistema rispetto alla posizione della difesa?
Mi spiace ma non recedo dalla mia convinzione. Io sono una di quello 0,2%, di magistrati che da pm, dopo 8 anni, è passata ad essere giudice, da oramai ben 12 anni; oggi se tornassi a fare il pm sarei un pm decisamente migliore di quello che sono stata in passato. Le dico, per esperienza vissuta, che è esattamente il contrario quello a cui bisogna puntare, per molti motivi, ma due sono fondamentali. Una limitazione di questo genere non solo non comporta alcun vantaggio, né in termini di efficienza, né in termini di produttività, ma soprattutto mortifica quello che “a parole” dovrebbe essere uno degli obiettivi di qualsiasi riforma dell’ordinamento giudiziario, ovvero quello di migliorare la qualità del lavoro giudiziario. Il passaggio di funzione, che bisognerebbe incentivare non limitare, rappresenta un arricchimento professionale e consente al magistrato di sviluppare una visione globale del procedimento. Bisognerebbe, in realtà, avere il coraggio di tornare indietro, a prima del 2006, e limitare il divieto di cambio funzioni solo al tribunale di appartenenza o al massimo alla corte di appello. Solo questo, dal punto di vista qualitativo, può portare ad un vero cambiamento.
(Antonio Pagliano)
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