Ci sono luoghi che evocano lo straordinario. Posti, cioè, che consentono di entrare in una dimensione che supera i confini di spazio e tempo di ciò che è quotidiano, facendo esperienza di qualcosa che rimanga impresso nella memoria, che non si faccia fatica a tenere a mente. “Tener-a-mente” è uno dei tanti giochi di parole della scrittura dannunziana, ne è testimone una lettera del poeta esposta nel museo allestito proprio sotto l’auditorium del Vittoriale, termine preso a prestito dalla celebre rassegna estiva di Gardone Riviera. E quello di Glen Hansard è il concerto che chiude il festival, la possibilità di mettere il sigillo ad una splendida stagione, che ha visto esibirsi anche Johnny Marr, Diana Krall e Calexico & Iron And Wine.
Se ne accorge subito anche Glen che in quel luogo c’è la possibilità di vivere un’esperienza speciale. Ce lo dice, compiaciuto dopo la prima manciata di canzoni, che è bellissimo suonare in quello che lui definisce “natural place”, un teatro che sembra una bomboniera, sorta di gioiello incastonato sulle rive del lago. Già, perché il Vittoriale, ultima residenza e luogo del riposo di Gabriele D’Annunzio, è un inno all’estetica, un continuo richiamo al desiderio di bellezza che il suo ideatore aveva inseguito per tutta la vita. Ed anche noi, stasera, musicisti e spettatori insieme, siamo a caccia di qualcosa che sappia suscitare stupore e meraviglia. Uno di quei momenti di bellezza, per chi scrive, è quando, sul finale di Fool’s Game, la voce femminile di Ruth O’Mahony-Brady punteggia, struggente, le note del pianoforte, mentre sullo sfondo il cielo nero che sovrasta il lago è illuminato da lampi minacciosi. Tutta la canzone è un andirivieni tra passaggi lenti e melodici ed improvvise e furiose accelerazioni rock. Ed è così che accade, sempre più spesso, nella proposta musicale di Glen, quasi un malinconico via via tra dolori e gioie, speranze e delusioni, momenti d’incanto ed attimi di abissi di buio. L’esistenza minacciata di continuo, in quel suo desiderio d’infinito che fa esperienza della finitezza, la tempesta che può, in qualsiasi momento, spazzare via il sereno. La paura di un acquazzone improvviso non ci abbandonerà per tutta la durata del concerto. Lampi e tuoni che sembrano uscire dal backstage minacciano di continuo le canzoni. E Glen ci scherza su, almeno un paio di volte, dice alla pioggia di venire, nostalgico forse, del suo clima irlandese, in giorni di caldo eccessivo anche per noi italiani. Ma la pioggia, invece, risparmierà tutti quanti, perché questa deve essere una serata da tenere a mente, nulla può rompere la magia.
Magia che inizia fin dalle prime due canzoni, tratte da Rhythm And Repose, una dolcissima Bird Of Sorrow, suonata da Hansard solo al pianoforte, le spalle rivolte agli spettaori, e This Gift, chitarra acustica e veste da busker come lo abbiamo sempre conosciuto, ma che finisce in una cavalcata per voce e chitarra di potenza straordinaria. Ci sarà spazio, lungo le 24 canzoni del concerto, per brani tratti da tutto il repertorio dell’artista. Splendide, come sempre, Falling Slowly e Fitzcarraldo, dell’epoca di Swell Season e Frames. Belli i brani pescati da Didn’t He Ramble, quali My Little Ruin, Winning Streak, Grace Beneath The Pines. Straordinaria, poi, la cavalcata di Didn’t He Ramble, in cui un improvviso rallentamento consente di entrare in una citazione di Riders On The Storms dei Doors, facendoci sentire per davvero cavalieri in grado di domare quella tempesta di emozioni e sentimenti che supera la paura dei lampi nel cielo. Che la formula musicale di Hansard sia sempre più a tutto tondo lo dimostrano anche i brani del nuovo album, This Wild Willing, rappresentato nel corso della sera da quattro brani: la già citata Fool’s Game, I’ll Be You, Be Me, Don’t Settle e The Closing Door. Aiutato da validi musicisti, tra cui, oltre a Ruth, voce e tastiere, spicca la chitarra di Javier Mas, Glen riesce sempre di più ad attraversare armonie musicali differenti, rallentando e accelerando, passando dai momenti più intimi ad altri in cui la furia della voce e del corpo mettono addirittura momentaneamente fuori uso una chitarra. C’è una passione che traspare, una semplicità che lo rende sempre comunicativo e indissolubilmente legato col suo pubblico, come nei suoi frequenti racconti tra una canzone e l’altra e, allo stesso tempo, una cultura ed una professionalità che lo rendono capace di abbracciare anche le canzoni degli altri, rendendole personali e originali. Accade, ad esempio con quel medley, eccezionale nel suo crescendo d’energia, che inizia con It Beats Me – dell’amico Mark Geary, che ha aperto il suo concerto, e suonata con lui – continua con Her Mercy, si mescola con Into The Mystic e sfocia in una Drive All Night di Springsteen, seguita da Bird On The Wire di Leonard Cohen semplicemente starordinarie. Basterebbe già questo a chiudere una serata memorabile, per chi scrive tra le più belle di tutta la sua carriera nelle date italiane. E invece mancano ancora i fuochi d’artificio. Una splendida cover di Dream Baby Dream e poi di Devil Town, con tutto il pubblico che, alzatosi dalle sedie, può salire sul palco, per cantare con Glen, abbracciarlo, fargli fare perfino un po’ di surfing tra le prime file. Gioia, euforia, quasi una catarsi collettiva, per un pubblico che ha goduto di ogni parte del concerto, tenendo da parte finalmente i telefonini, per entrare con veri occhi e orecchie dentro il viaggio che l’artista ha provato a condividere. E allora, per staccarsi da tutto questo senza malinconia, c’è bisogno di un ultimo momento, quasi uno spazio in cui, alla fine di tutto, l’anima possa adagiarsi e riposare. E’ The Auld Triangle, cantata a cappella da Glen e dai suoi amici musicisti, dove gioia e malinconia, allegria e tristezza, sappiano sapientemente mescolarsi insieme.
Hansard saluta contento, il pubblico ricambia, nella consapevolezza di aver vissuto un momento di rara bellezza. Canzoni, sguardi, emozioni che hanno bisogno di sedimentarsi lentamente, in una serata che è riuscita anche a scacciare la tempesta. Il giorno dopo, durante una visita al Vittoriale, contemplo la straordinarietà di mobili, oggetti, fotografie, quadri e sculture di cui D’Annunzio s’era circondato. Percorro i viali del parco, dove non spiccano solo i cimeli della guerra che aveva combattuto, ma anche i vialetti, i ruscelli, il piccolo laghetto a forma di violino che aveva ideato. Il Vate aveva come un’urgenza dentro sé di qualcosa di forte, invincibile ed eterno per la sua vita, qualcosa dietro alla quale era andato a caccia vanamente, se, alla fine della sua esistenza, aveva cercato di lasciare quella dimora agli italiani per trasferirsi nella piccola casa da lui chiamata efficacemente “schifamondo”. Non c’era riuscito ed aveva lasciato questa vita accasciandosi una sera, il capo chino su di una piccola scrivania. Penso alla bellezza di questo luogo, al concerto di Glen, alla dimensione di relazione di cui si fa esperienza ad ogni suo concerto, e penso che quel bisogno di bellezza si chiama amore. Possiamo circondarci di cose belle, di oggetti d’arte, di musica e canzoni, ma abbiamo bisogno di essere sempre più anime e cuori che viaggiano vicino. Compagni di strada, che vivano momenti da tener-a-mente. Teneramente insieme lungo le asperità del cammino.