Mi ci è voluto molto tempo per diventare giovane”. A Bob Dylan di compiere 80 anni non può fregare di meno. Già era stato così, quando ne aveva compiuti 50 e poi sempre, a ogni decennale: i 60, i 70 e adesso gli 80. La stampa e i media di tutto il mondo invece si sono sempre  lanciati in una corsa sfrenata per coprire l’evento. Il suo volto, nei giorni precedenti e in quello fatidico, il 24 maggio, è apparso ovunque e all’interno dei magazine e dei quotidiani si trovano gli articoli più improbabili con le citazioni di esperti, scrittori, colleghi musicisti, ognuno a dire la sua. Da parte del cantautore, ovviamente, nessuna dichiarazione.



D’altro canto, trent’anni fa, raggiungere i 50 anni per un artista rock significava, secondo i massmediologi, l’età del pensionamento, dell’imminente ritiro. Chi scrive ricorda lo stesso effetto quando i vari Mick Jagger e lo stesso Dylan di anni ne avevano compiuti 40: titoli di giornale del tipo “ecco i dinosauri del rock”… Che è la musica dei giovani per eccellenza. Sempre secondo i massmediologi.



Adesso, che gli anni sono 80, di che cosa parliamo quando parliamo di musica rock e compleanni? Di nulla, in realtà. Anni e anni fa, Bob Dylan aveva detto a proposito del suo costante essere in tour, che “quando avrò 90 anni, se mi verrai a cercare, mi troverai su un  palcoscenico da qualche parte”. Quella che allora sembrò una boutade, appare adesso come una autentica confessione e una rivelazione di un modo di intendere la vita che non abbisogna di etichette alcuna. Pandemia a parte, se il virus permetterà la ripresa dei concerti e se il buon Dio glielo concederà, quando avrà 90 anni, lo troveremo su “un palcoscenico da qualche parte”.



Il rock geriatrico non è una “cosa”, è una realtà in crescita sia per gli artisti che per il pubblico: “Pensi che io sia oltre la collina / Pensi che sia passato il mio apice / Fammi vedere cosa hai / Possiamo divertirci moltissimo” cantava Dylan nel 2006 in Spirit on the water, quando di anni ne aveva “solo” 65.

I quattro membri principali dei Rolling Stones – Charlie Watts, Mick Jagger, Keith Richards e Ronnie Wood – hanno un’età complessiva di poco meno di 309 anni. L’età complessiva dei quattro giudici della Corte Suprema degli Stati Uniti più anziani è di soli 291 anni.

Le etichette, i limiti di età, cosa sia o non sia il rock’n’roll sono tutti elementi che non hanno più significato alcuno e hanno assunto significati opposti. E un Bob Dylan che compie 80 anni, l’ex ragazzo che lanciò, a sua insaputa, la rivolta della controcultura anni 60 con le sue canzoni  piene zeppe di slogan contro l’establishment, ha nel frattempo vissuto almeno cinque o sei vite diverse. Certo, non è qualcosa che tutti sono riusciti a fare, inchiodati al loro mito.

Per Bob Dyan il concetto di tempo è qualcosa di relativo. Mai guardarsi indietro è sempre stato il suo motto e d’altro canto quando aveva poco più di vent’anni, cantando delle sue “pagine passate” diceva che “allora ero molto più vecchio, sono più giovane adesso”. Cioè un viaggio all’incontrario.

Il tempo è qualcosa di indefinibile, come ha intitolato uno dei suoi dischi più belli, “in un tempo immemorabile”, Time out of mind, prendendo l’idea da Shakespeare, ma soprattutto da una canzone meravigliosa di un collega purtroppo scomparso troppo giovane, Warren Zevon, Accidentally Like a Martyr, che lo stesso Dylan ha cantato dal vivo parecchie volte: “The days slide by should have done, should have done, we all sigh never thought I’d ever be so lonely after such a long, long time time out of mind” (“I giorni scivolano via, avrebbero dovuto, avrebbero dovuto farlo, sospiriamo tutti, non avrei mai pensato di essere così solo dopo così tanto, tanto tempo, un tempo immemorabile”). Mentre in Dark Eyes esplicitava il suo sentirsi fuori della realtà temporale: “I live in another world where life and death are memorized, where the earth is strung with lovers’ pearls and all I see are dark eyes” (Vivo in un altro mondo dove la vita e la morte sono memorizzate, dove la terra è piena di perle di innamorati e tutto quello che vedo sono occhi scuri). In Shelter from the storm, Dylan concludeva la canzone con le parole, “If I could only turn back the clock to when God and her were born” (Se solo potessi riavvolgere indietro l’orologio a quando Dio e lei nacquero), un verso che, se fossero esistiti gli orologi, Dante Alighieri avrebbe dato un dito per scriverlo lui. Ma è Born in time a descrivere il tempo immemorabile in cui Dylan vive la sua vita: “In the hills of mystery, in the foggy web of destiny, you can have what’s left of me, where we were born in time” (Nelle colline del mistero, nella rete nebbiosa del destino, puoi avere quel che resta di me, dove siamo nati nel tempo).

C’è un motivo per il quale gli 80 anni di Bob Dylan suscitano un falso clamore, che riguarda più noi che lui. Il problema è che, ai tempi della sua nascita, la musica rock era qualcosa fatta da giovani per altri giovani. Ma gli anni passarono. Gli eroi degli anni 50 cominciavano a diventare adulti e così il loro pubblico cominciava a mettere su famiglia, a entrare in banca e a disinteressarsi a loro. A ogni generazione se ne succedeva una nuova. Negli anni 60 “essere giovane” cominciò anche ad avere un preciso significato politico. Voleva dire appartenere a una contro cultura che rifiutava quella dei genitori e dei nonni, quelli che li mandavano in guerra o offrivano loro come unico destino metter su famiglia nelle leggendarie “casette rosa”, che significavano benessere, valori tradizionali, patria, chiesa e famiglia. Tutto quello da cui il rock rifuggiva. Lo stesso Dylan, nel corso della consegna di un premio per il suo impegno nella lotta per i diritti civili, si lasciò scappare più di un insulto nei confronti di quei liberal in giacca e cravatta e dalla zucca pelata che pontificavano dalle loro “casette rosa”: “Non è un mondo di vecchi. Non ha niente a che fare con le persone anziane. Le persone anziane quando i loro capelli cadono, dovrebbero uscirne. E guardo in basso per vedere le persone che mi governano e stabiliscono le mie regole – e non hanno i capelli in testa – mi arrabbio molto”.

Ma anche Dylan dovette pagare il prezzo per questa esaltazione della gioventù. Sempre negli anni 60, un motto dei giovani contestatori diceva: “Non fidarti di chi ha più di trent’anni”. Era l’età che separava i giusti dai cattivi. Nel 1971, quando Bob Dylan compì trent’anni, Charles Schulz pubblicò una celebre vignetta che riassumeva la contraddizione in atto. Linus e Charlie Brown guardano nel vuoto da un muretto. Linus commenta: “Bob Dylan compirà trent’anni questo mese”. Charlie Brown lo guarda fisso, poi commenta: “Questa è la cosa più deprimente che abbia mai sentito”.

Naturalmente va detto che c’è l’altro lato della medaglia: la morte da giovani. Quando Elvis morì, a soli 42 anni, un esponente del music business fece un commento passato alla storia: “Grande mossa di marketing”. Da quando è morto Elvis non solo ha decuplicato il numero dei dischi venduti, ma è diventato per molti un dio adorato e pregato in apposite chiese.

In effetti, il numero di rock star che hanno realizzato la famosa ambizione di James Dean di “Vivere velocemente, morire giovani, lasciare un bel cadavere” sono innumerevoli. L’esempio più pregnante è senz’altro quello di Jim Morrison dei Doors che ha avuto un tale boom di carriera dopo la morte (pare) per overdose a Parigi all’età di 27 anni che la sua immagine apparve sulla copertina di Rolling Stone 10 anni dopo con il titolo: “Jim Morrison: He’s Hot, He’s Sexy and He’s Dead”.

Ma i cantanti solisti che diventano sempre più famosi con il passare dei decenni, man mano che ogni generazione successiva scopre il loro genio, e arrivano a 80 anni e oltre gli 80? Si possono contare sulle dita di una mano. E uno di questi è senz’altro il premio Nobel Bob Dylan.

Con il passare dei decenni è apparso evidente che il legame rock’n’roll-giovinezza sia diventato un concetto superfluo. Alla soglia degli 80 anni, Rolling Stones, Paul McCartney, Neil Young e tanti altri rilasciano alcuni dei loro migliori concerti di sempre. Ai quali vanno frotte di giovanissimi.

E quindi, cosa può mai significare per Bob Dylan compiere 80 anni? Nulla, per un artista la cui vita è stata sempre in movimento, un percorso verso il compimento del proprio destino: “Il destino è la sensazione di sapere qualcosa di te stesso che nessun altro sa come un quadro del tuo futuro nella tua mente; ma è una cosa che devi tenere per te stesso, perché è molto fragile, se la dai in pasto al mondo ti distrugge”.

“La vita non è una questione di trovare te stesso, o trovare qualcosa. La vita è una questione di creare te stesso” ha detto ancora. Che bello se tutti, non solo gli artisti, vivessero con questa apertura. D’altro canto, lo diceva il grande psicoanalista Jung, “il più grande peccato che si possa compiere è non restare fedeli al proprio desiderio”. Quello che questa società folle cerca di strapparci dandoci in cambio nichilismo, omologazione di massa, consumismo disperato per riempire quel cuore che così viene svuotato del suo contenuto più vero: desiderio di bellezza, di felicità, di giustizia, di completezza. Bob Dylan no. Se una cosa ci ha insegnato, è che la vita vale la pena di essere vissuta per essere continuamente in movimento, lasciandosi incalzare dalla realtà e rifiutando ogni convenzione per rimanere fedele alla sua natura: “Per vivere fuori della legge devi essere onesto”.

Per questo vedere Bob Dylan a 80 anni ancora con noi è una grande consolazione (non sappiamo se per lui sia vero il contrario): non ha mai smesso di interrogarci, sfidarci, porre domande scomode, rifiutare la banalità, scomporre il puzzle, lanciare moniti e messaggi anche criptici e darci una mappa in cui cercare noi stessi e il senso di tutto. Come disse lo scrittore americano Howard Sounes quando Dylan compì 60 anni, cosa che vale anche adesso che ne compie 80, “Bob Dylan a 60 anni è lo stesso Bob Dylan di quando ne aveva 16. È riservato. È un uomo molto divertente, spiritoso e giocherellone. E allo stesso tempo è molto serio e tradizionalista. Ha un suo fascino nell’essere poco ortodosso, iconoclasta e ribelle. Ma lo è sempre stato”.

Ancora recentemente, nel corso di una intervista, Paul McCartney ha dichiarato: “Ci sono solo una o due persone che mi renderebbe nervoso l’idea di incontrare. Bob Dylan è una di queste, mi renderebbe così ansioso da chiedermi: ‘Oh mio Dio, che cosa dirò?’”.

Bob Dylan ha pubblicato il suo primo album all’inizio del 1962 quando aveva appena 20 anni. Dal rocker surrealista degli anni Sessanta allo zingaro trovatore degli anni Settanta e all’anziano  bardo riflessivo del magistrale Rough and Rowdy Ways dello scorso anno, Dylan è stato un gigante singolare della musica popolare per tutta la sua vita adulta, quasi 60 anni sotto i riflettori, la più grande figura vivente della forma d’arte più universalmente pervasiva dell’era moderna, la musica rock. Profeticamente, in una intervista rilasciata alla rivista Rolling Stone nel 1991, aveva già detto tutto: “Se sarò ancora qui a ottant’anni farò la stessa cosa che sto facendo adesso. Questo è tutto quello che voglio fare, è tutto quello che posso fare. Penso di aver sempre rivolto le mie canzoni a persone che immaginavo, forse falsamente, avessero avuto le stesse esperienze che ho avuto io, che sono passate attraverso quello che ho passato io, ma immagino che molte persone semplicemente non l’abbiano fatto. Vedi, sono sempre stato solo un individuo con un punto di vista individuale. Se ho parlato di qualcosa è probabilmente quello, e per far sapere ad alcune persone che è possibile fare l’impossibile. E questo è davvero tutto”.

Allora siamo tutti grati, Bob, che ti sia stato risparmiato il destino di Elvis, e in particolare quello di John Lennon, uno dei pochi che potrebbe essere arrivato a una vecchiaia brillante come la tua, se non fosse stato ucciso nel 1980.

Bastano e avanzano, in conclusione di un tributo che tu rifuggi, aver avuto la fortuna di condividere tanti anni della nostra esistenza con te. Bastano le tue stesse parole, scritte nel lontano 1973 come dedica alla tua prima raccolta di testi, che certificano la grandezza del tuo cuore, la vastità immensa del tuo lavoro e la bellezza che ci hai messo nel nostro di cuore e in cui possiamo, in modi diversi, riconoscerci ciascuno di noi. Perché alla fine è di questo desiderio che siamo fatti e ce lo hai sempre detto, dedicandoci canzoni che saranno lette, studiate e cantate ancora fra cento anni, come disse George Harrison: Dedicated to the rough riders, ghost poets, low-down rounders, sweet lovers, desperate characters, sad-eyed drifters and rainbow angeles – those high on life from all ends of the wild blue yonder (…) to the magnificent Woodie Guthrie and Robert Johnson who sparked it off and to the great wondrous melodies spirit which covereth the oneness of us all (Dedicato ai rudi cavalieri, ai poeti fantasma, agli ubriaconi di basso profilo, ai dolci amanti, ai personaggi disperati, ai vagabondi dagli occhi tristi e agli angeli arcobaleno – quelli che vivono la vita agli estremi del blu selvaggio laggiù (…) ai magnifici Woodie Guthrie e Robert Johnson che hanno scatenato tutto e allo spirito delle grandi melodie meravigliose che copre l’unicità di tutti noi”.

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