Via Paolo Fabbri 43, Bologna. E’ l’alba, umida e sporca di pioggia. Lui appoggia per terra la custodia della chitarra, con l’altra mano tira fuori da una tasca un mazzo di chiavi. Le sta girando nella toppa, quando sente aprirsi la porta accanto, al numero 41. E’ il vicino, un pensionato, sta mettendo fuori nel piccolo giardinetto il suo gattino. Succede sempre così: “lo sente quando torna stanco e tardi alla mattina aprire la persiana, tirare la tendina e mentre sta fumando ancora un’altra sigaretta, andar piano, in pantofole, verso il giorno che lo aspetta e poi lo incontra ancora quando viene l’ora sua, gli dà un piacere assurdo la sua antica cortesia: “Buon giorno, professore. Come sta la sua signora? E i gatti? E questo tempo che non si rimette ancora…“
In una caterva di canzoni bellissime, scritte e incise nel corso di una carriera durata più di 40 anni, Francesco Guccini, 80 anni domani, canzoni che ne basterebbero dieci delle sue per fare la carriera di qualunque collega, questa in particolare dà la dimensione della sua umanità, della sua capacità di descrivere a fondo l’umano e il suo bisogno, e in questo facendo riconoscersi lui stesso, con la consapevolezza che in fondo siamo tutti uguali: bisognosi.
Il pensionato è lo stupirsi delle cose minimali di vita quotidiana avvertite attraverso il muro di separazione delle case metropolitane; i gesti immaginati e mai visti; gli incontri fugaci nel pianerottolo; l’odore di minestra. Del bisogno estremo di compagnia fra gli esseri umani che le buone maniere borghesi e la moderna società hanno slegato fra loro, lasciando ognuno in una solitudine cosmica.
Normalmente ce ne freghiamo, ognuno chiuso nella sua bolla quotidiana, ma quando hai un cuore che anela al desiderio di compiutezza della vita, non puoi celarti. Ecco la malinconia insopprimibile che Francesco Guccini ha espresso più di ogni altro, si dipana allo stupore:
Io ascolto e non capisco e tutto attorno mi stupisce
La vita, com’è fatta e come uno la gestisce
E i mille modi e i tempi, poi le possibilità,
Le scelte, i cambiamenti, il fato, le necessità
E ancora mi domando se sia stato mai felice,
Se un dubbio l’ebbe mai, se solo oggi si assopisce,
Se un dubbio l’abbia avuto poche volte oppure spesso,
Se è stato sufficiente sopravvivere a se stesso...
Poi il pensionato morirà, le condoglianze di cortesia e di obbligo e “poco a poco andrà via dalla nostra mente piena soltanto un’impressione che ricorderemo appena”.
Di canzoni così Francesco Guccini ne ha scritte a dozzine. Con i suoi 80 anni può guardare il mondo dall’alto in basso, lui che è nato in un mondo contadino, “un piccolo vecchio mondo antico” e si è trovato a sbattere con un mondo che stava cambiando, ma in peggio, nonostante le illusioni ideologiche che hanno fatto credere a più di una generazione che le cose sarebbero andate meglio con “i più audaci in tasca l’Unità”. Ha spiazzato tutti Guccini dicendo di non essere mai stato comunista e noi che ai suoi concerti quando cantava La Locomotiva alzavamo in migliaia il pugno chiuso. Il ’68 l’ha fatto controvoglia e subito dopo si è dedicato al privato. Troppo grande l’angoscia che lo attanagliava e i conti che non tornavano mai,
Io ora mi alzo tardi tutti i giorni
Tiro sempre a far mattino
Le carte poi il caffè della stazione
Per neutralizzare il vino
Ma non ho scuse da portare
Non dico più d’esser poeta
Non ho utopie da realizzare
Stare a letto il giorno dopo
È forse l’unica mia meta
Gli sparuti riferimenti all’anarchia erano letterari e non politici, perché è un cantautore creativo “non un militante austero.” Non si è limitato a contestare l’invasione della Cecoslovacchia con la straordinaria Primavera di Praga dedicata a Jan Palach che si diede fuoco in piazza per protesta mentre tutti i suoi coetanei avevano bandiere solo per il Vietnam.
Guccini è sempre stato lassù, in alto, a dominare la nostra piccola miseria personale, la malinconia per una bellezza intravista e anche toccata con mano e poi perduta, nelle osterie fuori porta, che adesso non ci son più.
E lo vorrei
Perché non sono quando non ci sei
E resto solo coi pensieri miei
L’incapacità a rendere stabile la condizione di felicità, è quello che ha angosciato sempre Guccini. Una rabbia che si scatena quando capisce che la nostra piccolezza e miseria umana da sole non ce la fanno: che siano la politica o il lavoro o l’amicizia o l’amore:
Chi glielo dice a chi è giovane adesso di quante volte si possa sbagliare,
fino al disgusto di ricominciare perché ogni volta è poi sempre lo stesso.
Eppure il mondo continua e va avanti con noi o senza e ogni cosa si crea
su ciò che muore e ogni nuova idea su vecchie idee e ogni gioia su pianti.
Il guardarsi in faccia e restare “incredulo”: “vivo ancora e son lì ad aspettarmi le mie domande, il mio niente, il mio male”. Chi non si è mai alzato con la stessa sensazione, e dire: non ci posso credere, sono ancora vivo.
Chi non si è ritrovato in una piccola stazione di provincia, a sera tarda, poche luci accese, carte e vento che volan via, freddo e luci accese sembra apposta per tu e lei. Poche parole, il silenzio che dice tutto. Un saluto frettoloso che dice non ci rivedremo mai più, in fondo non avevamo niente da dirci, e dondolato dal vagone veder passare le luci accese nelle finestre dei palazzi e dietro ogni finestra immaginare un’altra vita, un’altra famiglia, una moglie, un marito, dei figli, tutti con la stessa sensazione di solitudine che ci giunge addosso quando fa buio. Corriamo tutti nella stessa direzione senza sapere quale sia e che senso ha, restano i sogni senza tempo, le impressioni di un momento siamo qualcosa che non resta frasi vuote nella testa e il cuore di simboli pieno.
E’ tutto qui, e fa troppo, troppo male. Se il cuore si riempie di simboli di plastica e la testa di frasi vuote, non siamo più uomini, non abbiamo più il desiderio che è quello che rende la vita degna di essere vissuta. Siamo oggetti, destinati a sprofondare nelle sabbie mobili.
Ma poi resta, in fondo in fondo, l’orgoglio e la forza delle proprio “radici” perché è nella memoria dei nostri cari che han dato la vita per noi, per l’Italia, per il bene comune che ci sentiamo vivi, “l’albero della vita”. “Mi piacerebbe tanto rivedere nonna Amabilia, nonno Pietro che morì quando avevo tredici anni, il prozio Enrico che morì quando ne avevo 23: ero militare e non mi diedero la licenza. E mio padre e mia madre”.
Tornò come fan molti, due soldi e giovinezza ormai finita,
(…)
Ma resta la memoria, nel sangue di famiglia, e resta l’attesa di un giorno in cui davanti al mondo, tutto sarà rivelato:
Quand’io l’ ho conosciuto o inizio a ricordarlo era già vecchio,
sprezzante come i giovani, gli scivolavo accanto senza afferrarlo
e non capivo che quell’uomo era il mio volto, era il mio specchio
finché non verrà il tempo in faccia a tutto il mondo per rincontrarlo,
finché non verrà il tempo in faccia a tutto il mondo per rincontrarlo,
finché non verrà il tempo in faccia a tutto il mondo per rincontrarlo
E resta la memoria di quel qualcuno o quel qualcosa che ha messo in moto il tuo desiderio, sono intravisto, ma toccato; tutto era cominciato lì, da un Dio che è morto ma tutti ormai sappiamo che se Dio muore è per tre giorni e poi risorge. Solo, l’abbiamo dimenticato. Ma torneremo a prenderci per mano, in modi misteriosi:
Un vecchio e un bambino si preser per mano
e andarono insieme incontro alla sera;
la polvere rossa si alzava lontano
e il sole brillava di luce non vera…
Il bimbo ristette, lo sguardo era triste,
e gli occhi guardavano cose mai viste
e poi disse al vecchio con voce sognante:
“Mi piaccion le fiabe, raccontane altre!”