Il 9 ottobre John Lennon avrebbe compiuto 80 anni. Era nato mentre nella sua città, Liverpool, era in corso un bombardamento di arei tedeschi. Ne aveva infatti appena compiuti 40 quando l’8 dicembre 1980 uno squilibrato, David Mark Chapman, a cui per l’undicesima volta proprio poche settimane fa è stata negata la libertà condizionata, lo uccise a colpi di pistola davanti all’ingresso della sua abitazione newyorchese dopo avergli chiesto un autografo. Per l’occasione il vecchio amico Paul McCartney che di anni ne ha uno di meno, renderà pubblica forse l’unica canzone ancora inedita della coppia magica che infiammò gli anni 60, un pezzo che si conosce già per una manciata di secondi, intitolato Just for fun. Ed è infatti un piccolo pezzo di divertimento spontaneo, come i due amici ne facevano spesso tra una registrazione e l’altra.
Chi sarebbe oggi Lennon se non fosse stato strappato al mondo in un modo così atroce e allo stesso tempo banale? Probabilmente un filosofo, uno scrittore oppure un politico, che in tempi di personaggi come Trump della sua voce ci sarebbe davvero bisogno, come quando manifestava contro Nixon e la guerra in Vietnam.
Avrebbe continuato a fare dischi, magari ci sarebbe stata l’agognata reunion dei Beatles prima che la morte, un tumore, portasse via anche George Harrison nel 2003. L’ultima volta che Lennon si esibì dal vivo fu nel 1974, a un concerto dell’amico Elton John. L’ultima volta invece che McCartney e Lennon si videro fu un paio d’anni dopo. Lennon era diventato padre da poco, si era ritirato a vita completamente privata, felice di aver avuto un figlio dopo il fallimento con il precedente, Julian, praticamente abbandonato alla madre mentre lui era impegnato a fare la star. Questa volta no: al piccolo Sean voleva dedicare tutto se stesso, ma la cattiveria della vita glielo avrebbe impedito, strappandolo a lui a soli 5 anni di età. Per Sean, Lennon compose una canzone che conteneva uno dei versi più magnifici e veritieri che si sia mai sentito in una canzone rock (sebbene pare che l’ex Beatle l’avesse ripresa da un numero del 1957 della rivista Reader’s Digest, all’interno di una sezione chiamata “Quotable Quotes” (“citazioni da citare”), che la attribuiva a Allen Saunders, un autore di fumetti): “La vita è quello che ti accade mentre sei occupato a fare altri progetti”. E così fu. Mentre era occupato a promuovere il suo nuovissimo disco, Double Fantasy, uscito in quelle settimane e a godere della vita familiare, la vita accadeva portandogliela via, la vita. E’ così che funziona. Non abbiamo deciso noi quando nascere, non decidiamo noi quando morire.
Quella sera del 1976 McCartney si presentò a casa di Lennon, suonò il citofono e disse che aveva portato una chitarra, perché non provare a fare un po’ di musica come ai vecchi tempi. Lennon, scocciato, rispose, Paul, ho un figlio, non hai altro da fare? Però lo fece salire. I due insieme si misero a guardare il Saturday Night Live Show e pensarono che sarebbe stata una figata se si fossero presentati lì all’improvviso, senza avvertire, chiedendo di suonare. Sarebbe stato l’evento degli eventi, ma poi cambiarono idea.
Lennon stava diventando un uomo diverso. Aveva probabilmente trovato la risposta a quel grido di dolore che, inaspettatamente, gli era uscito fuori un giorno, in pena Beatlemania, quando i Beatles rappresentavano la bellezza e la felicità dell’essere giovani. Lui invece scrisse un pezzo che denunciava, come detto da lui stesso, la sua depressione incalzante, Help!, un grido d’aiuto. Inizialmente una ballata lenta e malinconica, venne accelerata in un pezzo rock perché il messaggio del brano non venisse percepito: “Aiutami, mi sento giù”. Lennon gridava aiuto, ma viveva in un mondo di sordi. In quella canzone parlava apertamente della sua insicurezza, della depressione e della necessità che qualcuno lo aiutasse, che qualcuno lo guidasse per riportarlo con i piedi per terra.
John Lennon ha passato gran parte della sua vita a chiedere aiuto. Nel 1964 scrisse I’m a Loser, sono un fallito. Nel 1968 in Yer Blues canta “Sì, sono solo, voglio morire… Mi sento un suicida”. Ancor peggio, una lucida descrizione di una depressione che sta sfociando in schizofrenia, è l’apparentemente dolce Nowhere Man, dove Lennon si autoidentifica con il nulla, con l’assenza dell’Io: “È un autentico uomo del nulla Seduto nella sua terra del nulla Facendo tutti i suoi progetti nel nulla per nessuno Non ha un punto di vista Non sa dove sta andando Non è un po’ come te e me?“.
Lennon ha ripetuto la richiesta di aiuto in quella che è stata una delle sue ultime e profetiche composizioni: Help me to help myself, incisa per l’ultimo album, ma inclusa nella ristampa espansa del 2000, quasi a chiudere un cerchio esistenziale:
Ho provato così tanto a sistemarmi
Ma l’angelo della distruzione continua a perseguitarmi tutt’intorno
Ma lo so nel mio cuore
Le foglie brillano al sole
Che non ci siamo mai veramente separati
Oh no, oh, aiutami, Signore
Oh, aiutami, Signore
Per favore, aiutami, Signore
Aiutami ad aiutare me stesso
Dicono che il Signore aiuti chi aiuta se stesso
Quindi sto facendo questa domanda nella speranza che tu sia gentile
Perché lo so nel profondo
Le foglie brillano al sole
Non sono mai stato soddisfatto
Oh no, oh, aiutami, Signore
Per favore, aiutami, Signore
Aiutami ad aiutare me stesso
Profeticamente, Lennon sapeva che “l’angelo della distruzione” era sulle sue tracce. Nonostante tutto, quello di cui sentiva bisogno, un uomo che aveva cambiato la storia popolare, che aveva scritto alcune delle più belle canzoni del Novecento, che aveva guadagnato una fortuna economica incredibile, che adesso aveva una famiglia felice, era essere semplicemente se stesso. Quello che desideriamo tutti, anche se oggigiorno quasi nessuno lo pensa più, attratto dalla banalità e dalla menzogna che il mondo ci offre e ci svende a ogni istante. John Lennon, strappato crudelmente alla vita, resta, al di là delle immaginette santificanti tipo Imagine, un uomo che ha toccato il cielo con un dito, ma si è accorto che neanche quello era sufficiente per riempire il vuoto che lo attanagliava.