E dire che qualcuno giudicava gli Houthi poco più di un dito nell’occhio, una faccenda che riguardava per lo più la stabilità della penisola araba (dieci anni di guerra tra Yemen e Arabia) e che s’era allargata solo negli ultimi tempi a compromettere i commerci navali tra lo stretto di Bab-el-Mandeb e Suez, attraverso il Mar Rosso. Eppure i “ribelli” sciiti Houthi non avevano mai fatto mistero del loro obiettivo numero uno di sempre: Israele, adesso con in più il pretesto di aiutare i fratelli di Hamas a Gaza.
Lo Stato ebraico, in realtà, è il centro del loro bersaglio, ma il secondo cerchio vede gli Usa, e il terzo tutti gli altri loro alleati occidentali, come la Gran Bretagna e gli Stati europei che hanno promosso la missione Aspides (tra cui l’Italia), il pattugliamento navale del quadrante a protezione dei commerci marittimi. Gli Houthi non si pongono limiti, se non quelli dettati dalla gittata delle loro armi, missili e droni. E visto che questi ordigni, tutti made in Iran (ma ci sarebbero prove di un upgrading di scuola russa), oggi si dimostrano in grado di superare distanze considerevoli (riportavamo l’altro giorno su queste pagine le specifiche dei SAMAD e di quelle ancora incerte degli ordigni classe YAFA), anche i centri nevralgici israeliani più distanti (quindi non solo Eilat, ma pure e soprattutto Tel Aviv, o Haifa, o qualsiasi altro centro turistico costiero) si risvegliano quali bersagli plausibili.
Lo ha ben dimostrato il missile piovuto sulla capitale, che ha causato una vittima, oltre a un numero ancora non ben definito di feriti, ma soprattutto che ha fatto bruscamente abbassare sotto i limiti finora osservati la sopportazione dello Stato ebraico, già preso di mira centinaia di volte da attacchi Houthi. Stavolta, il gabinetto di sicurezza di Tel Aviv, convocato d’urgenza nella giornata dello Shabbat (la giornata in cui i fedeli sarebbero tenuti ad astenersi dal lavoro) ha deciso di rispondere, con un inedito attacco diretto contro varie infrastrutture militari e il porto yemenita (controllato dai terroristi ribelli) di Hodeida.
Le bombe lanciate dai sofisticati caccia F35 con la stella di David (i Lightning II di quinta generazione con caratteristiche stealth) hanno centrato tra l’altro un deposito di carburante, causando un vasto incendio visibile a parecchi chilometri di distanza (“un monito – ha detto un portavoce israeliano – per tutte le milizie armate contro di noi”) e la paralisi delle attività portuali di quello che era considerato il terminal di sbarco degli approvvigionamenti di materiale bellico inviato regolarmente dall’Iran.
Colpo su colpo: gli Houthi, dopo l’attacco subìto, hanno promesso controattacchi su larga scala, del tutto prevedibilmente, mentre “L’attacco mortale a Tel Aviv, lanciato dagli Houthi sostenuti da Teheran, e la risposta altrettanto rapida e mirata di Tel-Aviv contro lo Yemen controllato dagli Houthi, segnano una pericolosa escalation” dice Alex Selsky, analista del Middle East Forum, già consigliere di Netanyahu. Come riporta un lancio AGI, Selsky parlando ai microfoni di Iran International ha lasciato intendere che ciò che sta avvenendo è la prova provata che non si tratta di una guerra tra Israele e gli alleati regionali dell’Iran, ma piuttosto di un conflitto più ampio che viene combattuto in Israele in quanto simbolo degli Stati Uniti e dell’Occidente in Medio Oriente. Una lettura piuttosto convincente, come da tempo abbiamo sostenuto anche su questo giornale, dicendo che quello dello Yemen è già da mesi il terzo fronte di scontri antisraeliani, e forse non sarà nemmeno l’ultimo, dato che milizie filoiraniane, i tentacoli proxy della vasta legione straniera di Teheran, muovono oggi in Siria e in Iraq (lì si chiamano Kataib Hezbollah, una delle organizzazioni più numerose), ma anche in certi angoli della Giordania, Paese che, pur ospitando circa due milioni di rifugiati palestinesi, vorrebbe restare tenacemente fuori dai conflitti regionali.
La cronaca, però, parla di un’escalation di guerra che dura ormai da quel 7 ottobre, quando i fanatici macellai di Hamas pensarono bene (fin troppo facile intuire spinti da chi) di massacrare 274 militari e 859 civili israeliani, e rapire 250 ostaggi (oggi 30 sono morti, 100 rilasciati, e degli altri non c’è alcuna certezza). Israele, per la sua storia e per la sindrome d’accerchiamento di cui sempre ha dovuto soffrire, non è mai stata abituata a porgere altre guance, ma a rispondere colpo su colpo ad ogni offensiva minacci la sua integrità o i suoi cittadini.
Non è davvero tempo, adesso, di confidare in soluzioni a breve termine delle ostilità, quanto di ripensare alle posture assunte dall’Occidente nel corso del tempo in tutta l’area. La pacificazione, la normalizzazione, se non una riconciliazione basata di fatto sul mutuato riconoscimento del diritto di esistere degli attori di tutta l’area, potranno avvenire solo con una crescita culturale ma soprattutto economica di chi oggi si ritrova a soffrire la fame, ma ha un fucile in mano. Il progressivo disimpegno degli Stati Uniti, che si sono concentrati solo nell’aiuto fondamentale al loro alleato nell’area, Israele, con una paralisi totale della diplomazia con l’Iran, e la cronica distrazione europea hanno lasciato spazio alle mire di chi interpreta il Medio Oriente quale sua dependance, basata su un islamismo sciita da imporre anche su popolazioni che sciite non sarebbero, e che però vedono nel faro iraniano l’unica possibilità di sopravvivenza.
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