La guerra in corso non conosce, purtroppo, confini. Non solo, ovviamente, per le più dirette conseguenze sugli equilibri geopolitici, ma anche, se non soprattutto, sulle economie dei diversi Paesi europei ma non solo. In questo quadro vi è, infatti, un crescente (e motivato) timore che la ripresa, dopo i due anni di pandemia Covid contrassegnati da una profonda recessione, possa subire una seconda, e ulteriore, significativa interruzione per due principali ragioni.
La prima risiede nelle conseguenze di una, inevitabile, contrazione delle relazioni commerciali con la Russia e, più in generale, del commercio mondiale. Il rischio di ripercussioni sull’attività economica si gioca, in questa prospettiva, su due fronti: da un lato, la nostra esposizione diretta, o indiretta, alla domanda di beni e servizi proveniente dalla Russia; dall’altro, la nostra dipendenza dalle importazioni di beni e servizi russi.
La seconda preoccupazione trae, altresì, fondamento dalla prevista, e prevedile, ulteriore accelerazione dei prezzi delle materie prime. L’incremento dei prezzi di gas e petrolio, di cui la Russia è grande esportatrice, rischia, inoltre, di alimentare l’inflazione, già surriscaldata in Europa dallo squilibrio fra un eccesso di domanda e un difetto di offerta di materie primarie, essenziali per la produzione. L’aumento dei prezzi, riflettendosi, in definitiva, sui costi per le imprese, potrebbe diminuire la competitività del sistema produttivo in una misura tanto maggiore quanto più ampia è la dipendenza di ogni Paese dalle importazioni russe.
In questo quadro stanno uscendo numerosi studi che si ripropongono di quantificare il grado di esposizione di un territorio, o di un settore, a una possibile interruzione degli scambi commerciali con la Russia e, allo stesso tempo, di stimare, tramite la definizione di specifici modelli di analisi, l’effetto sui prezzi che la crisi ucraina potrebbe avere sul sistema economico e sulle famiglie.
Un recente studio dell’Irpet, ad esempio, prova a proporre un’analisi degli effetti della guerra sull’economia toscana che, ahimè, è, con alcuni correttivi, valida anche per altri territori del nostro Paese.
Emerge, tra le altre cose, come le imprese più esposte sono, e lo saranno, anche quelle tendenzialmente più strutturate sia in termini dimensionali che di fatturato, e si concentrano (l’82% in termini di valore dell’export) nei settori manifatturieri. Se lo studio si sposta poi a livello settoriale, si nota come oltre la metà delle esportazioni delle imprese sia realizzata da aziende meccaniche e tessili seguite da quelle farmaceutiche, dell’industria del mobile, e alimentari.
La guerra, insomma, oltre alle grandi questioni geopolitiche, sembra possa mettere, almeno nel breve periodo, in crisi una parte importante del nostro “Made in Italy” nel quale operano, in molti casi, le imprese più innovative, moderne e trainanti della nostra economia.
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