Ha pienamente ragione il Cardinale Parolin, Segretario di Stato Vaticano, il quale ha affermato che l’invio di armi in Ucraina è una “risposta debole” e che bisognerebbe passare da uno “schema di guerra a uno schema di pace”, puntando a una maggiore iniziativa europea sul terreno diplomatico per provare a fermare un conflitto causa di lutti sanguinosi e danni al momento incalcolabili non solo a quel Paese e ai suoi abitanti, ma anche in misura crescente alle economie dei Paesi occidentali a causa delle sanzioni da essi imposte alla Federazione Russa. Danni crescenti alle economie europee, alle loro imprese e alle classi lavoratrici che vi sono impiegate di cui sarebbe bene che i dirigenti ucraini dal Presidente Zelensky al suo Ministro degli esteri Kuleba tenessero maggiormente conto e che, è bene saperlo, non potrebbero essere ulteriormente aggravati, pena la stessa stabilità economico-sociale di molti Paesi fra cui l’Italia.
Insomma, al punto in cui si è arrivati non è forse giunto il momento che i rappresentanti politicamente più equilibrati della Commissione europea e i Paesi che li esprimono assumano una forte iniziativa politico-diplomatica capace, da un lato, di prendere le distanze dalla linea “avventurista” del Governo britannico e di alcuni settori della Nato e, dall’altro, di far comprendere all’Amministrazione americana che l’Ue per intuibili equilibri geopolitici ed economici ritiene ormai necessario impegnarsi con convinzione in un’azione che, per quanto difficile possa apparire, porti almeno a una tregua e poi a negoziati di pace fra Russia e Ucraina? Deve essere solo il Presidente turco Erdogan – alla guida peraltro di un Paese aderente anch’esso alla Nato – a prodigarsi pubblicamente in tal senso?
Pertanto, ci si può riconoscere sino in fondo in una crescente escalation di aiuti militari all’Ucraina che farebbero intuire solo la volontà di chi li sollecita e di chi li assicura di continuare una guerra, cui invece è necessario (e doveroso eticamente) porre fine quanto prima, senza naturalmente disconoscere le gravi responsabilità di chi l’ha iniziata?
E si è proprio sicuri poi che l’opinione pubblica americana sia compattamente schierata con il Presidente Biden? E nel Congresso di Washington e nello stesso Partito democratico sono tutti d’accordo sulle posizioni della Casa Bianca e del Segretario di Stato Antony Blinken? E l’Episcopato americano e i cattolici Usa sono del tutto insensibili agli accorati appelli di papa Francesco a porre fine al conflitto? E ancora, è del tutto fuori luogo immaginare l’amarezza del Pontefice dinanzi all’oltranzismo riarmista del “cattolico” Presidente Biden? E allora, hanno del tutto torto coloro i quali affermano che gli Stati Uniti, dopo il precipitoso abbandono dell’Afghanistan, armando pesantemente l’Ucraina stanno in realtà combattendo una guerra per procura contro la Russia? Ma se così fosse, tale scelta del Presidente Biden sarebbe in linea con gli interessi immediati e di prospettiva dell’Europa comunitaria? E un rischioso indebolimento economico dell’Ue, causato dalla guerra e dal suo prolungarsi, non finirebbe comunque col fare gli interessi delle due superpotenze Usa e Cina?
Circa la corsa statunitense a riarmare l’Ucraina con tutti i rischi di estensione del conflitto che si incominciano a temere ogni giorno sempre di più, ci piace ricordare invece che il Presidente americano Harry Truman (repubblicano) nel 1952 fermò il generale Douglas MacArthur, eroe della guerra nel Pacifico fra il ’41 e il ’45, e alla guida delle forze Usa nel conflitto coreano che avrebbe voluto impiegare l’arma atomica contro i nordcoreani appoggiati dalla Russia di Stalin e dalla Cina di Mao. Aggiungiamo poi (ma solo per memoria) che in Corea, dopo una guerra sanguinosissima, vige dal 1953 un armistizio che (almeno sinora) non è sfociato in un trattato di pace e che lo stesso Paese, com’è noto, è diviso in due Stati, uno dei quali, la Corea del Sud, è diventato nel frattempo una grande potenza economica mondiale.
Ma guardiamo anche all’Unione europea e ai suoi organi di governo. La Presidente Ursula von der Leyen – che sin dall’inizio è attestata su una linea di contrapposizione dura alla Russia – non è socialdemocratica come il cancelliere Olaf Scholz, ma nel suo Paese milita nella Cdu che ha attaccato al Bundestag il Capo del Governo per le sue precedenti renitenze (in parte superate solo di recente) a inviare armi pesanti in Ucraina e a voler rinunciare al gas russo, soprattutto dopo che la Bundesbank ha stimato come un embargo totale su di esso provocherebbe danni per almeno 180 miliardi di euro all’economia tedesca. Siamo sicuri allora che persistenti contrapposizioni di politica interna in Germania (ove la Cdu è all’opposizione) non si riflettano nella Commissione europea, in seno alla quale si potrebbero voler creare problemi alla attuale guida della Germania?
Stupisce peraltro il silenzio del Vicepresidente socialista Frans Timmermans; potrebbero esserci sfuggite alcune sue prese di posizione, ma al momento non ne ricordiamo alcuna nei confronti della guerra. Il Commissario Gentiloni invece – giustamente – è preoccupato soprattutto per i riflessi economici nell’Ue e in Italia della crisi in Ucraina. L’industria italiana, al Nord ma soprattutto nel Sud, sta soffrendo elevati costi dell’energia, carenza di materie prime provenienti dall’Est Europa e chiusura del mercato russo per molti prodotti. I calzaturieri marchigiani che con il supporto di Bologna Fiere vanno alla mostra del settore di Mosca non ci dicono proprio nulla? Certo, le scarpe non sono sotto sanzioni, ma è un segnale preciso quello che giunge a tutti noi da imprenditori di Pmi che “non vogliono morire” – così hanno dichiarato – e decidono pertanto di andare in un momento delicatissimo come questo a Mosca, con tutte le difficoltà logistiche e di incasso dei pagamenti che sappiamo. E le grandi aziende acquirenti di gas russo che si accingerebbero (o che lo hanno già fatto) a pagare in rubli i loro acquisti meritano solo indignata riprovazione dagli oltranzisti delle sanzioni?
Ma la Ces, la Confederazione dei sindacati europei ha forse preso posizione sul prolungarsi di un conflitto che rischia di infliggere pesanti danni anche alle economie europee e ai lavoratori che vi sono impiegati? In Germania invece la Bundesverband der Deutschen Industrie – ovvero la Lega federale dell’industria – e la Dgb, l’Associazione dei sindacati non hanno forse firmato una dichiarazione congiunta contro la rinuncia immediata al gas russo in una fase in cui quel Paese non ha ancora individuato fonti sostitutive di approvvigionamento, almeno nelle dimensioni necessarie ai consumi nazionali?
E l’Italia è realmente in condizioni economiche, politiche e sociali di poter prolungare il proprio impegno anche militare a fianco del Governo ucraino, senza contemporaneamente avvertire l’urgenza di prodigarsi in sede europea e nei confronti dello stesso Presidente Zelensky per suggerirgli di proporre (o accettare) almeno una tregua su basi realistiche che sfoci poi i seri negoziati fra le parti?
Abbiamo letto nei giorni scorsi che il ministro degli Esteri Di Maio, in pieno accordo con il Presidente Draghi, è in collegamento costante con il Presidente turco Erdogan impegnato nel tentativo di riportare al tavolo delle trattative i belligeranti. Bene, ma su quale piattaforma negoziale da proporre alle parti si starebbe lavorando? In proposito, se è comprensibile il riserbo governativo, l’auspicio più vivo è che ci sia un reale, effettivo sforzo del nostro Esecutivo e della nostra diplomazia, sperabilmente supportati dal Parlamento, per avanzare proposte realistiche per negoziati efficaci.
Il Presidente francese Macron, riconfermato alla guida del suo Paese e pur impegnato nella composizione del nuovo governo in vista delle elezioni legislative di giugno, in quanto Presidente di turno dell’Ue dovrebbe tornare a far sentire la sua voce, ma è necessario che nella stessa Unione europea si sviluppi un serrato confronto sulle prospettive del conflitto e sulle modalità per provare almeno a fermarlo.
Ci vuole audacia diplomatica e creatività propositiva nell’individuare soluzioni da portare alle parti in conflitto, ma quattro sembrerebbero essere i punti sui quali avviare una riflessione comune nell’Ue: un’attenuazione o sospensione anche temporanea delle sanzioni alla Russia, un forte sostegno economico all’Ucraina per avviarne la ricostruzione, la garanzia di alcuni Paesi per la sua neutralità e il riconoscimento delle Repubbliche autonome del Donbass e della Crimea ormai parte integrante della Federazione russa. Concessioni territoriali inaccettabili per Zelensky (e non solo per lui)? Forse sarebbe opportuno ricordare che in Medi Oriente le alture siriane del Golan sono diventate parte integrante dello Stato di Israele dopo la guerra dei sei giorni nel giugno del 1967.
Si afferma che Putin al momento non vorrebbe la fine delle ostilità, ma – alla luce anche delle pesanti perdite subite sul campo di battaglia e degli effetti crescenti delle sanzioni sull’economia russa – sarebbe interessante verificarne la risposta a proposte europee che siano presentate come realisticamente praticabili per le due parti in causa.
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