L’Oil (Organizzazione internazionale del lavoro) è la più antica istituzione in materia, essendo stata costituita nel 1919 alla fine della Grande Guerra nell’ambito della Società delle Nazioni. Ora è un organismo delle Nazioni Unite: l‘unica agenzia tripartita che riunisce governi, datori di lavoro e lavoratori di  187 Paesi, per fissare standard di lavoro, sviluppare politiche e ideare programmi che promuovano un lavoro dignitoso per tutte le donne e gli uomini. Nel settembre scorso l’Oil ha presentato, a cura di Jelle Visser dell’Università di Amsterdam, un rapporto sul sindacato molto interessante non solo per i suoi contenuti, ma soprattutto perché è difficile trovare analisi dedicate a uno degli strumenti essenziali per la tutela del lavoro e della stessa democrazia. 



Il rapporto è stato presentato e discusso, nei giorni scorsi, in un webinar promosso dal quotidiano on line Il Diario del Lavoro. “Il calo dell’occupazione nel settore manifatturiero e la nascita di nuove forme di lavoro flessibili e atipiche (non standard) attraverso il subappalto ed esternalizzazione in gran parte del mondo sviluppato, nonché l’espansione dell’economia informale nei paesi in via di sviluppo, hanno provocato – è scritto nell’introduzione – una contrazione dei tassi di sindacalizzazione in quasi tutti i paesi del mondo. La copertura della contrattazione collettiva in molte parti del mondo è pericolosamente bassa e in continuo calo”. Una “nuova instabilità del lavoro” caratterizza i rapporti di lavoro del XXI secolo, “compromettendo i regimi normativi che hanno organizzato e governato i mercati e i rapporti di lavoro per gran parte del XX secolo”. 



Ciò è dovuto principalmente ai cambiamenti nel commercio internazionale, nei flussi migratori, nella struttura industriale, nel comportamento e nelle politiche delle imprese. In questo contesto, i sindacati devono affrontare due principali sfide: l’avanzata dell’economia digitale e il divario sociale tra i lavoratori stabili e retribuiti da una parte e i disoccupati e i lavoratori instabili, mal pagati e precari dall’altra. L’intelligenza artificiale e la robotica possono creare e allo stesso tempo distruggere posti di lavoro, ma dal punto di vista dei sindacati sono i posti di lavoro sbagliati quelli a essere distrutti. 



Le attuali statistiche sull’occupazione, che riflettono la prima fase della “rivoluzione digitale”, indicano un calo dei posti di lavoro nelle posizioni intermedie dei settori manifatturieri, nonché dei posti di lavoro qualificati e semi-qualificati nel settore industriale: proprio i posti di lavoro che storicamente i sindacati hanno contribuito a rafforzare e che sono stati la principale roccaforte del loro potere e della loro influenza nella politica e nei rapporti di lavoro. 

Il rapporto, si articola in tre parti. La prima descrive l’attuale “stato dei sindacati”, analizzando l’andamento dell’appartenenza sindacale e dei tassi di sindacalizzazione in relazione ai cambiamenti del settore economico e del mercato del lavoro. L’analisi si concentra tanto sui livelli di adesione sindacale quanto sulla composizione dei sindacati stessi. La seconda parte cerca di valutare l’influenza di vari fattori – alcuni esterni, altri di interni al mondo sindacale stesso – sui tassi di sindacalizzazione: i livelli di reddito e la quota dell’agricoltura o dell’industria; la dimensione dell’economia informale; la diversità etnica e i conflitti; le violazioni dei diritti dei lavoratori; le istituzioni della contrattazione collettiva e delle relazioni sindacali e la frammentarietà dei sindacati. La terza parte si conclude con l’analisi dei quattro seguenti scenari per il futuro dei sindacati.

1) Emarginazione: proseguendo con i trend attuali, caratterizzati da un calo della partecipazione sindacale e dal declino del potere e dell’influenza dei sindacati nei mercati del lavoro emergenti, si andrà incontro a una graduale emarginazione dei sindacati stessi. Questo può essere interpretato come il risultato di un processo di liberalizzazione dei movimenti e di svincolo del capitale dalla sua dipendenza dal lavoro, dagli Stati nazionali e dagli obblighi internazionali.

2) Dualizzazione: invece di deteriorarsi lentamente, i sindacati difenderanno le loro posizioni e resisteranno negli ambiti in cui sono attualmente maggiormente radicati (nelle grandi imprese, tra i lavoratori qualificati e gli operai del settore industriale e della logistica, tra i professionisti del settore pubblico e dei servizi sociali). Considerata la crescente instabilità del lavoro, ciò porterà a un divario sempre più netto tra le imprese sindacalizzate e quelle non sindacalizzate, dove le seconde prevarranno sulle prime.

3) Sostituzione: i sindacati lasceranno gradualmente il posto ad altre forme di azione e di rappresentanza sociale previste dalla legge (garanzie sui salari minimi, commissioni salariali, comitati aziendali, comitati di produttività, organi arbitrali e di revisione), promosse dai datori di lavoro (coinvolgimento dei lavoratori, codici etici, modelli di partecipazione e di condivisione) da parte di intermediari (studi legali, agenzie di intermediazione del lavoro, uffici di consulenza) e nate da forme più o meno volontarie e sistematiche di azione sociale.

4) Rivitalizzazione: i sindacati troveranno un modo per rinnovare le pratiche sindacali, invertire l’attuale tendenza, reinventarsi, estendere il loro ambito d’azione e garantire protezione e rappresentanza alla “nuova forza lavoro instabile” dell’economia digitale.

Ovviamente, non siamo in presenza di scenari distinti e compiuti, uniformi in tutti i Paesi sviluppati. Vi sono già in partenza delle profonde differenze per quanto riguarda i tassi di sindacalizzazione e i livelli di copertura contrattuale. Anche gli sviluppi possono intersecarsi persino nelle realtà specifiche di ciascun Paese. Soprattutto per quanto riguarda, a mio avviso, gli scenari 2) e 3). Quelle che il rapporto definisce “altre forme di azione e di rappresentanza sociale” non sono affatto incompatibili con il ruolo di un sindacato che accetti di articolare meglio la propria funzione di tutela e di presenza nel mondo del lavoro e nella società. Anzi, l’aprirsi ad “altre forme di azione e di rappresentanza” è sicuramente una terapia utile a evitare la marginalizzazione. 

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