Che oggetto strano è Gli infedeli, il film di Stefano Mordini distribuito da Netflix ma prodotto da Rai Cinema e con una prevista distribuzione nelle sale, poi evidentemente saltata. Strano per due ragioni: una a priori, produttiva, e una a posteriori, critica.
Si tratta del remake di un film francese del 2012 con lo stesso titolo e raccoglie una serie di episodi il cui tema centrale è il tradimento maschile e il ruolo del maschio nei rapporti di coppia: Mordini assieme Riccardo Scamarcio (anche tra i protagonisti) e Filippo Bologna scrive una serie di scene e scenette più o meno articolate, ispirandosi alla commedia italiana anni ’60 (così come faceva anche il film francese) e calcando la mano sui vizi del maschio, sulla sgradevolezza dei suoi vizi e la fragilità delle sue virtù.
Come si diceva, il film è un’operazione curiosa: perché prendere un film stroncatissimo come quello del 2012 e farne una rilettura che di quel film tiene conto molto poco, se non in qualche frammento? Probabilmente per migliorarlo, per adattarlo ai nostri tempi e al contesto italiano, perché il format in disuso della commedia a episodi parrebbe ideale per raccontare la società frammentata, oltre a sposarsi bene con le modalità di consumo dello streaming.
Ma poi c’è anche una questione critica che il film – anche forse per mancanza di uscite di ben altro peso – ha sollevato al momento della sua uscita e di cui si sono fatti alfieri alcune firme intorno a FilmTv: Gli infedeli, di fatto, è una commedia che non fa ridere, nemmeno con il disagio, l’imbarazzo o il disgusto. Dietro questa apparente inadempienza allo statuto del genere si celerebbe una volontà di affondare il coltello nella piaga del narcisismo e della società maschili, mettere gli spettatori uomini di fronte alla loro mediocrità, senza compiacersene con la risata come forse facevano i predecessori, tanto più che il regista del film è uno solo (e gli scrittori tutti maschi), mentre nella versione francese ogni episodio aveva un regista differente, tra cui una donna.
L’intento del film è quindi chiaro, sbertucciare le abitudini maschili, magari estremizzandole, senza la riabilitazione della risata che, volenti o nolenti, può provocare simpatia, affezione, ed è anche interessante la sua costruzione teorica, ovvero costruire una suspense comica che non sfoci nella risata ma in una smorfia amara o desolata, in cui l’attesa del finale da barzelletta venga disattesa, sempre presa contropiede. In tutto questo però, il bravo Mordini (che a settembre chiuderà la Mostra del Cinema di Venezia con il dramma di fantasmi Lasciami andare) e il suo gruppo di attori – Scamarcio, Mastandrea, Gallo, Föis, Chiatti, Cervi, Axen – tutti piuttosto in forma sembrano essersi dimenticati della pratica, della destinazione finale della messinscena, ovvero lo spettatore.
A che serve un film in cui l’accumulo di situazioni non è mai sciolto, risolto nel racconto o nel tono della regia, ma lasciato a mezz’aria? Perché calcare sulla cattiveria sottile o meno dei personaggi se poi niente appare compiuto, tutto appare lasciato perdere, magari scientemente? In che modo un’operazione del genere, i cui discorsi che ci si fanno intorno sono più interessanti del film stesso, dovrebbe dialogare col pubblico, fargli capire qualcosa, sollevargli un interrogativo, se al pubblico non dà nulla?
Ok non necessariamente una commedia deve far sganasciare, quello è il compito di un film comico per esempio, ed è gesto coraggioso e utile prendere lo spettatore in contropiede. Magari, però, per la prossima volta, gli si dia qualcosa in cambio.