«Si è trattato del più grande azzardo dei venticinque anni di politica di Richard Nixon: un tentativo disperato e forse fatale di vincere la propria sopravvivenza come Presidente in cambio della perdita della reputazione personale e politica. La sua puntata è stata la consegna all’opinione pubblica di 1254 pagine, per duecentomila parole, di trascrizioni dei nastri del Watergate; egli pensava – cosa improbabile – che lo avrebbero scagionato. Invece, quello che il signor Nixon ha dimostrato è stata la ragione per la quale egli ha lottato così a lungo per sopprimere quei nastri. Anche così come sono, censurati dalla Casa Bianca, le trascrizioni ritraggono lo stesso signor Nixon come un capo debole, irriverente, cinico, isolato, inetto e infine immorale».
Con queste righe il settimanale “Newsweek” del 13 maggio 1974 presentava una “Special Section” dedicata ai “Nixon Papers”, una parziale stesura di alcune delle registrazioni delle conversazioni tenutesi nel corso degli anni tra il suo staff e Richard Milhous Nixon, «Tricky Dicky» («Dick l’imbroglione», come fu soprannominato nel 1950, in occasione della sua prima vittoriosa campagna elettorale come candidato repubblicano per il Senato), «lo sgradevole Nixon» (nelle parole dello storico Richard Hofstadter), trentasettesimo Presidente statunitense in carica dal 20 gennaio 1969 fino al 9 agosto 1974, giorno delle sue dimissioni.
Venticinque anni fa – la pellicola uscì infatti nelle sale americane il 5 gennaio 1996 – il più controverso inquilino della Casa Bianca venne ritratto sul grande schermo in Gli intrighi del potere – Nixon dall’allora più controverso regista di Hollywood, Oliver Stone, ancora sull’onda del clamore e delle protese suscitati dai suoi titoli precedenti, JFK – Un caso ancora aperto (1991) e Assassini nati – Natural Born Killers (1994): Stone, newyorkese, classe 1946, aveva servito in fanteria in Vietnam per un anno (1967-68) e, rientrato, si era laureato nel 1971 alla New York University Film School, dove aveva avuto come insegnante anche Martin Scorsese («Scorsese mi presentò il cinema come un modo per usare le mie energie»), per poi iniziare a farsi conoscere più come sceneggiatore che come regista, fino ai due successi di Platoon (1986) e Wall Street (1987).
Il primo attore a prendere in considerazione il ruolo principale era stato Warren Beatty. La parte era stata poi offerta a Tom Hanks, Jack Nicholson e Dustin Hoffman, ma tutti avevano declinato la proposta. Seppur brevemente, erano stati valutati anche Gene Hackman, Robin Williams e Tommy Lee Jones, ma la scelta di Stone era infine caduta su Anthony Hopkins: «Nel frattempo avevo visto Quel che resta del giorno e Viaggio in Inghilterra, e mi sono accorto che Tony era l’attore che cercavo. Nel primo film aveva la tristezza che avvertivo in Nixon, nell’altro il calore umano che consideravo altrettanto necessario». Pare che il ruolo fosse stato offerto anche a John Malkovich, che lo stava però ancora considerando quando Hopkins aveva accettato la parte, e che in caso di rifiuto dell’attore gallese una proposta fosse già pronta per Gary Oldman.
Centottanta minuti fitti di ambienti, situazioni, persone e dialoghi che – aggirandosi con (abbastanza) disinvoltura in settant’anni di Storia americana – raccontano ascesa e caduta dell’uomo che più di altri fece parlare gli Usa e il mondo di una «presidenza imperiale» (“The Imperial Presidency” è il titolo di un best seller dello storico Arthur M. Schlesinger Jr. del 1973), facendone una figura da tragedia shakespeariana attraverso un ritratto più intimamente umano che puramente politico (cosa alquanto sorprendente – data la sua carriera fino a quel momento – per un reduce del Vietnam e uno sceneggiatore e regista “arrabbiato” come Stone) che si apre con un passo evangelico («Che vantaggio avrà l’uomo se guadagnerà il mondo intero, ma perderà la propria anima?», Mt 16, 26) e – pur in uno stile complessivamente intonato alla moderazione, se non alla compassione – non risparmia affondi su diversi aspetti dell’uomo e del politico Richard Nixon: sensibile e implacabile, vulnerabile e manipolatore, vittima e persecutore. Una posizione ambivalente che si avverte lungo tutta la pellicola e che (tra le tante) queste due battute – la prima dell’agente CIA e uno dei “cospiratori” del Watergate Howard Hunt e la seconda del Segretario di Stato Henry Kissinger – ben rappresentano: «[P]resto o tardi – presto, penso – imparerai una lezione che è stata appresa da tutti coloro che si sono avvicinati a Richard Nixon: che è l’oscurità che tende all’oscurità. E, alla fine, è sempre o tu o lui»; «Riesci a immaginare cosa sarebbe stato quest’uomo se qualcuno l’avesse amato? È una tragedia perché aveva la grandezza nelle sue mani ma aveva i difetti delle sue qualità».
In definitiva, come l’ha sintetizzato Morando Morandini, «[n]on […] soltanto un film “su” Nixon (1913-94) ma un film “dentro” Nixon».