Gli spiriti dell’isola è una pellicola di valore che non può lasciare indifferenti. Pur incredibilmente snobbata nella notte degli Oscar (malgrado ben nove nomination), la tragicommedia interpretata da due giganti come Colin Farrell e Brendan Gleeson ci riguarda in modo singolare, in quanto i temi di fondo sono l’amicizia e il desiderio di una vita piena e pacifica, cui tutti aspiriamo.



Quella tra Pádraic e Colm è un legame senza pretese, in una realtà semplice e perfino banale, che improvvisamente si spezza con cause e conseguenze apparentemente incomprensibili e purtroppo imprevedibili. Siamo nei giorni che precedono la Pasqua del 1923, giusto un secolo fa, su un’isola (immaginaria) al largo della costa occidentale dell’Irlanda, da cui in lontananza si vedono i bagliori e si sentono le esplosioni della prima guerra civile irlandese (tra chi aveva sostenuto il trattato dello Stato Libero d’Irlanda sotto il controllo della Gran Bretagna e chi invece voleva un Paese totalmente libero dal dominio britannico). Al pub, mentre si legge il giornale, si commenta sgomenti: “Perché sta succedendo? Non era meglio quando combattevamo insieme?”.



Eppure, purtroppo, quel conflitto storico fratricida, che agli abitanti di Inisherin (l’isola immaginaria) appare in tutta la sua insensatezza, si replica in modo altrettanto assurdo tra i due amici. Certo, il loro è un legame fatto più che altro di paziente abitudine, di bevute al pub, in un mondo ristretto, ripetitivo e pettegolo; ma sanno farsi compagnia e si aiutano a vincere la noia e la solitudine. L’inquieto Colm, però, di punto in bianco, rifiuta di accompagnare l’ingenuo Pàdraic per le solite chiacchiere davanti a una pinta di birra, perché semplicemente il suo amico non gli va più a genio. Anzi, in verità lo annoia a morte, perché lui cerca altro: vuole comporre con il suo violino una musica da lasciare in eredità ai posteri, che mantenga la sua memoria e lo apra verso orizzonti più profondi. Nobile intento il suo, ma perseguito con una durezza e insensibilità insopportabili per lo sprovveduto Pàdraic. Questi, un contadino piuttosto ingenuo, non si arrende ai rifiuti dell’amico e cerca in tutti i modi di ricucire quel rapporto che per volere di Colm non sembra avere più futuro.



Ma non si tratta solo di un’intimità spezzata, qui si apre in modo prima grottesco e poi drammatico la voragine del male, che travolge i due protagonisti e con loro tutto il villaggio. Entriamo nell’orizzonte dell’assoluta irragionevolezza, la stessa che caratterizza anche tutti i grandi e piccoli conflitti della storia. L’intransigente Colm, che vuole assolutamente essere lasciato in pace, lancia infatti un assurdo ultimatum: minaccia di tagliarsi un dito ogni volta che Pàdraic gli rivolgerà la parola. Si amputerà le dita di quella mano con cui suona il violino, fonte di gioia per le sue creazioni. E così tragicamente accade, dopo ogni tentativo del più giovane di convincere l’amico a riprendere i rapporti. Un male oscuro pervade il paese, che non possono fermare né la protezione della statua della Madonna all’incrocio dei viottoli, né l’arrivo settimanale del prete. Egli infatti, pur confessando regolarmente Colm, non riesce a intuirne il dramma esistenziale. Quella dei paesani è purtroppo una fede poco vissuta e preda delle forme e delle paure: per esempio delle banshee (citate nel titolo originale del film), spiriti femminili che appaiono di sorpresa preannunciando un destino di morte, e che tutti cercano di evitare.

Pur di vincere la noia e il vuoto Colm, è disposto a tutto. Anche Pàdraic lentamente viene catturato nella spirale del male, che travolgerà con loro altri personaggi, come “lo scemo del villaggio”, che tanto scemo non è, ma è piuttosto vittima di un padre corrotto. Tuttavia, l’abisso del male verso cui sembra precipitare inesorabilmente l’intera l’isola non è l’ultima parola e, seppure la sua ferita permanga, resta aperta la possibilità di un nuovo incontro dei due protagonisti, nel finale aperto. Del resto nella vicenda si staglia anche un personaggio positivo, la sorella di Pàdraic, donna coraggiosa e colta che lascia l’isola verso una nuova vita. Ecco dunque la verità della Pasqua 1923 raccontata nel film, come per noi cento anni dopo. È il messaggio di una possibile salvezza dai contrasti e dalle lotte che ci lacerano, salvezza di cui ogni uomo ha bisogno sempre.

La stessa certezza ci è proposta con modi più dolci, malgrado le miserie e le grettezze dell’Irlanda rurale degli anni ’80, anche dalla seconda pellicola, The quiet girl. Protagonista è la silenziosa Cáit, bambina di nove anni, che si nasconde nei campi trascurati della sua povera fattoria o sotto al letto, sempre in fuga dalle incomprensioni con le numerose sorelle e dalle difficoltà scolastiche. Ma le viene aperta una possibilità imprevista: per le difficoltà della sua modesta famiglia d’origine (padre insensibile e poco affidabile, madre stremata da una nuova gravidanza) Cáit viene affidata per l’estate a una coppia di parenti di mezz’età, in una fattoria ben avviata. Qui lentamente la ragazzina scopre la delicatezza rispettosa di chi si prende cura di lei senza pretese, ma con attenzioni quotidiane a lei del tutto sconosciute. Così anche la bambina impara lentamente a fidarsi di adulti che l’accolgono e la rispettano, crescendo in bellezza e serenità. Comincia a guardare a se stessa con la gioia di correre (e corre davvero forte, come scoprirà grazie al padre affidatario) verso la giovinezza, con una nuova coscienza di sé e del mondo.

Delicato e affascinante nelle sfumature del paesaggio, degli sguardi e dei piccoli gesti che sanno cambiare il mondo, The quiet girl ci ridona la speranza e la fiducia nella potenza dell’affetto gratuito. È questa l’unica via per trasformare il mondo, lo dimostra il destino di una bambina silenziosa, con gli occhi sgranati, bisognosa di amore come ciascuno di noi, per sbocciare come un fiore. Un messaggio di Pasqua destinato a tutti.

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