Era stato dispiegato nel Mediterraneo ad inizio giugno, tanto per rimarcare la presenza Usa nel mare nostrum in riferimento all’invasione russa in Ucraina e alle possibili estensioni del conflitto. Adesso però il Gerald R. Ford Carrier Strike Group ha ricevuto un’altra missione, nelle acque del vicino Oriente.

Il 17 settembre la capofila del gruppo navale da battaglia, la nuovissima portaerei nucleare USS Gerald R. Ford CVN-78 (la più grande del mondo, costata oltre 13 miliardi di dollari, lunga 337 metri, più di tre campi da calcio in fila, e larga 78, con un equipaggio di circa 5 mila persone) aveva gettato le ancore nel golfo di Trieste, per restarvi fino al 21, quando riprese la missione di pattugliamento. La superportaerei non naviga da sola: il suo gruppo comprende l’incrociatore lanciamissili classe Ticonderoga USS Normandy (CG-60) e i cacciatorpediniere lanciamissili classe Arleigh Burke USS Thomas Hudner (DDG-116), USS Ramage (DDG-61), USS Carney (DDG-64) e USS Roosevelt (DDG-80). Il tutto accompagnato da una o più unità sottomarine (non dichiarate) e, ovviamente, affiancato dalle forze aeree imbarcate: sulla Ford sono dispiegati diversi gruppi di volo, tra cui quelli dei caccia F/A-18E/F Super Hornet, con gli aerei da guerra elettronica EA-18G Growler, gli aerei di controllo e allarme precoce E-2 Hawkeye e gli elicotteri Seahawk. Gli Usa stanno anche aumentando gli squadroni di aerei da combattimento F-35, F-15, F-16 e A-10 dell’Air Force nella regione.



Il segretario alla Difesa USA, Lloyd Austin, già il giorno dopo dell’attacco sanguinario di Hamas, ha dichiarato – come riporta l’Associated Press – di aver ordinato al gruppo d’attacco di navigare verso il Mediterraneo orientale “per essere pronto ad assistere Israele. Cittadini americani sono stati segnalati per essere tra le vittime uccise o rapite. La USS Gerald R. Ford e il ponte di aerei da guerra saranno accompagnati da incrociatori e cacciatorpediniere in una dimostrazione di forza che dovrebbe essere pronta a rispondere a qualsiasi evenienza, dall’eventuale intercettazione di armi aggiuntive dirette ad Hamas alla rafforzata sorveglianza”. Il grande dispiegamento – commenta l’AP – sottolinea la preoccupazione che gli Stati Uniti hanno nel cercare di scoraggiare il conflitto dal crescere. Il presidente Joe Biden ha annunciato lunedì che il bilancio delle vittime statunitensi nella guerra è salito a 11. Oltre agli 11 cittadini americani di cui Biden ha confermato la morte, un numero indeterminato di persone rimane disperso, e non è ancora chiaro se i dispersi siano morti, nascosti o siano stati presi in ostaggio. “Gli Stati Uniti – ha aggiunto Austin – mantengono forze pronte a livello globale per rafforzare ulteriormente questa posizione di deterrenza, se necessario”.



Sono tutte reazioni prevedibili, perfino scontate, ed è impensabile che non siano state messe in conto dai terroristi macellai di Hamas, né tantomeno da chi li manovra. A questo punto, subito archiviata la débâcle delle intelligence (in primis il HaMossad leModi’in uleTafkidim Meyuchadim, detto semplicemente Mossad,”l’istituto”, ritenuto il migliore del mondo, fin dalla sua fondazione, nel ’49, per volere di Ben Gurion; ma poi anche tutti gli altri servizi occidentali, a partire da CIA e NSA statunitensi) rinviata ad un’analisi futura – che magari riconsideri la valenza dell’humint sulla sigint, cioè la raccolta di informazioni attraverso personale sul campo piuttosto che limitata alle intercettazioni elettroniche – non è stravagante ricordare quanto accaduto nell’ottobre del 2000, nel golfo di Aden, Yemen meridionale. Lì era ormeggiato un moderno cacciatorpediniere americano della classe Burke, l’USS Cole (DDG-67), dispiegato nel quadrante a rafforzare l’embargo ONU all’Iraq.



A bordo era stato istituito il consueto dispositivo di controllo elettronico, i radar di avvistamento erano in funzione, ma nessuno immaginò che un piccolo barchino che stava arrivando da tribordo potesse rappresentare una minaccia. Quel barchino però era stato imbottito con 200 chili di C4, un potente esplosivo, che fu fatto detonare dal commando suicida di al-Qaida (sostenuto dal Sudan) sul fianco della nave, causando una falla alta 12 metri che fece sbandare il Cole di 4 gradi. Le vittime, oltre ai due terroristi, causò la morte di 17 marinai, altri 39 rimasero feriti. La nave fu poi caricata su una piattaforma-pontone e rimorchiata in patria: le riparazioni costarono 170 milioni di dollari.

La lezione del Cole ha indotto la US Navy a rivedere le consegne riguardanti l’avvistamento, la proiezione e l’interdizione preventiva di ogni possibile minaccia alle proprie unità. Ma basta un’occhiata ad una delle app di tracciamento navale (ad esempio MarineTraffic) per rendersi conto che il Mediterraneo è un quadrante superaffollato, anche se le acque prospicenti la striscia di Gaza risultano al momento ancora sgombre. In questa, che si preannuncia come una guerra asimmetrica fino ad un certo punto, viste le potenze in gioco, anche se da remoto, un blitz come quello che subì il Cole, o comunque un attacco insensato ma comunque tentato (i gommoni e i razzi ad Hamas sembrano non mancare) contro la presenza militare degli USA, potrebbe portare ad un’ulteriore reazione, e da lì ad un’inevitabile espansione del conflitto. Una trappola assolutamente da evitare, e non solo per circoscrivere l’eterno conflitto nell’area, ma anche per salvaguardare le vite innocenti, colpevoli solo di non essere ancora riuscite ad isolare il fanatismo estremista, che si mescola tra i civili facendo ricadere su tutti le loro macellerie. E le bombe che adesso si sono attirati addosso.

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