Arriva – questa volta dall’Australia – una sentenza che supporta la sicurezza degli erbicidi a base di glifosato, molecola chimica ampiamente diffusa per via della sua efficacia in relazione ai rischi per l’uomo (soprattutto se rapportato ad altri composti simili ormai spariti dal mercato) e coinvolta in cause legali dopo casi registrati in tutto il mondo di linfomi non-Hodgkin e – soprattutto – dopo un vecchio (ed ormai smentito) studio pubblicato nel 2012.



Prima di arrivare alla causa legale australiana – e anche a tutti gli altri casi simili mossi in giro per il mondo, ma soprattutto tra Canada e Stati Uniti – vale la pena soffermarci un attimo sulla nomea che il glifosato si è guadagnato nel corso degli ultimi anni: il punto di origine – come dicevamo prima – è proprio il 2012 quando uno studio aveva rilevato un presunto potere cancerogeno; ma dopo l’analisi indipendente lo studio fu ritirato – e, dunque, smentito – per vizi metodologici.



Nel frattempo – però – l’interesse degli enti sanitari mondiali si è attivato, portando l’agenzia IARC dell’Organizzazione mondiale della sanità a classificare (dopo un’analisi dei pochi materiali disponibili) il composto nella lista 2A tra i ‘probabili cancerogeni; mentre tutte le altre associazioni ed Organizzazioni mondiali un paio d’anni dopo il parere dell’IARC hanno adottato linee più cautelative, chiedendo di ridurne l’impiego tra la popolazione civile, ma senza mettere in difficoltà gli agricoltori.

La causa australiana contro il glifosato: cos’ha detto il giudice e come è giunto alla sue conclusioni

Dal primo parere dell’IARC la alcuni Stati hanno adottato misure per ridurre i rischi: a livello Europeo solo la Francia e l’Olanda ne hanno limitato – almeno tra i civili – le vendite; mentre l’Unione Europea nel 2022 ha concesso l’uso del glifosato in campo agricolo, purché sia presente in forma ‘pura’ e non mischiato ad altri possibili cancerogeni. Nel frattempo sono aumentati i casi di presunti linfomi causati dal composto, al punto che oggi di contano un totale di 170mila cause legali (ovviamente in parte raccolte in class action) intentate contro le aziende che lo usano nei loro prodotti: ad oggi si sono tenuti nei soli States 20 processi, 14 dei quali vinti dalle aziende per insufficienza di prove.



Torniamo – così – ad oggi e al parere dei giudici australiani che si sono riuniti per decidere su un’ampissima class action intentata da più di mille persone su spinta del 41enne Kelvin McNickle che lamentava di aver sviluppato il linfoma non-Hodgkin dopo un ventennio di uso quasi quotidiano di prodotti a base di glifosato.

Per evitare problemi il giudice Michael Lee prima di prendere una decisione ha esaminato decine di studi diversi (tra quelli epidemiologici in senso stretto, quelli sugli animali ed anche diverse prove meccanicistiche) giungendo alla conclusione che “non è stato dimostrato, sulla base di una preponderanza di probabilità (..) che il periodo di uso ed esposizione [al composto] abbiano aumentato il rischio di un individuo di sviluppare linfoma non-Hodgkin”; e dunque – in altre parole – non può essere considerato un cancerogeno.

Un giudizio – quello australiano sul glifosato – che si pone più o meno sulla stessa linea di quelli simili già emessi da almeno 14 giudici americani; ma al quale si è giunti con un processo legale del tutto differente: negli USA – infatti – le class action prevedono il parere di una giuria di civili che dopo aver ascoltato le posizioni e tutte le prove dei due contendenti si accordano su una sentenza; mentre in Australia la decisione è stata relegata ad un solo giudice che ha percorso la strada degli studi e della scienza, raccogliendo prove e teorie per formulare la sua sentenza.