Prete tra preti, piegato sui limiti e le ferite dei giovani. Francesco ieri si è ritrovato nel giardino Vasco da Gama, a Bélem, seduto su uno sgabello di compensato ad ascoltare le parole sussurrate di ragazzi che forse mai si sarebbero aspettati di dover raccontare i propri peccati al pontefice. Tra le casette a tre pareti che puntellavano la gigantesca area verde, accanto a Praca do Império, si amministrava a piene mani la Misericordia del Padre. Una delle esperienze più sorprendenti delle Gmg di ogni tempo. File lunghe e silenziose, raccoglimento e lacrime, per incontri del cuore che a volte durano ore. Il Papa si è fatto strumento di riconciliazione, ha confessato tre giovani: Samuel, italiano, Yesvi, guatemalteca, e lo spagnolo Francisco. In tre non arrivavano agli 86 anni del Papa. Eppure erano lì a spogliare l’anima, a parlare a tu per tu con Dio, a cercare di riallacciare un’amicizia distratta con Cristo.



Samuel ha detto che Francesco gli ha fatto delle domande, poi lo ha lasciato parlare. Quello che si sono detti lo porterà nel cuore per sempre. Perché forse è questo che non riescono a capire gli analisti che già conteggiano, scettici, la percentuale del milione di Lisbona che finirà per riempire i banchi vuoti delle chiese del dopo-pandemia: la Gmg è un’esperienza. Ha a che fare con i muscoli piegati e stanchi, i piedi cotti nelle scarpe da ginnastica, la puzza delle magliette imbevute di sudore, l’odore di quei confessionali che portano ancora le tracce dei detenuti delle carceri di Coimbra, Pacos de Ferreira e Porto che li hanno costruiti. I luoghi dove ritrovare la libertà di amare, costruiti da chi la libertà non la abita più.



I giorni di Lisbona, per i ragazzi ancora straniti e confusi, segnati inevitabilmente dai mesi di reclusione pandemica, costretti a rifugiarsi nel virtuale dall’isolamento forzato, hanno la cruda e disturbante bellezza della realtà. Non una videocall, ma il calore di un abbraccio, il contatto di sguardi, il caldo sulla schiena quando si china il capo per ricevere l’assoluzione. Hanno ritrovato la ritualità, il senso della propria religiosità espresso in gesti e parole. Hanno sperimentato la carnalità del cristianesimo.

Persino nel suo segno impossibile e scandaloso: la Croce. Nel tramonto di Lisbona, paure, ansie, timori sono diventate le stazioni di una via crucis rappresentata plasticamente da corpi che si contorcevano, nel dolore e le violenze quotidiane, sulle impalcature sfalsate di Parque Eduardo VII. Burnout, bullismo, droga, alcolismo, pornografia, pedofilia, guerra, eco-ansia, tutti i demoni che spaventano la generazione presente. “Tu qualche volta piangi?” ha chiesto il Papa agli 800mila impegnati nel rito. Per poi ammettere che tutti versiamo lacrime nei momenti brutti della vita. Quelli in cui ci si sente soli, o al massimo in compagnia delle proprie sconfitte. E poi Francesco ha ricordato che una persona, Gesù, vuole riempire i vuoti di ogni esistenza con il suo amore e la sua consolazione.



Un momento, quello della via crucis coreografica di Lisbona, in cui riversare sofferenze, inquietudini, miserie personali per ritrovare il sorriso del cuore. Un rito composito, che ha mescolato arte, musica e danza per far entrare i ragazzi nel grande Mistero della Croce. Per abbracciare le loro storie di fragilità e sofferenza. Una liturgia per vivere nella carne il calvario di Cristo. Qualcosa che rimarrà impresso nella memoria muscolare: come la tenerezza di chi ti dice “va’, tutto ti è perdonato”.

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