Le note dolenti e avvolgenti del fado, il vento che sferza le tante bandiere vessilli di famiglie, case, terre, il sole e la bellezza dell’oceano addomesticato nelle baie di Lisbona. L’ammasso di corpi sudati che si agitano lungo Parque Eduardo VII accompagna l’icona della Vergine che sfila verso l’impalcatura simile a quella dei palazzi in ristrutturazione, che è il punto di fuga di centinaia di migliaia di sguardi. Contempli e hai la percezione che la bellezza della fede sia lì, in quel rettangolo verde popolato di volti del mondo, riuniti dall’incontro con Gesù. Ipotesi o meravigliosa certezza che sia.
La cosa più saggia se si vuole gustare la Giornata mondiale della gioventù è foderarsi le orecchie quando si imbastiscono improvvidi tentativi di decodificare il fenomeno, bypassare la retorica di bandiere ed energia giovanile, azzerare i commenti sulla marea umana, lo spettacolo straordinario, l’entusiasmo a palate e lasciarsi condurre al centro esatto del momento che si vive, quell’istante in cui papa Francesco accarezza con le mani la croce pettorale che sbatte sull’abito bianco, mentre l’altra croce, quella di legno che ha attraversato i continenti, viene issata per puntellare il cielo portoghese.
Perché tutto è l’appuntamento di Lisbona tranne che il rendez-vous di una vecchia star con i suoi fans. È convocazione. Azione, movimento, dinamica risposta ad un appello, ad un Tu pronunciato per scuotere il cuore.
Lo ha detto Francesco: “siamo qui perché siamo stati chiamati, siamo qui perché siamo amati”. Sì, sotto il cielo di Lisbona ci sono le teste bionde come il grano delle ucraine, che hanno attraversato l’Europa impotente di fronte al dolore delle loro mamme, dei loro fratelli, dei loro padri massacrati al fronte. Ci sono i volti bruni dei ragazzi turchi che ancora sentono addosso il peso delle macerie del sisma che ha distrutto lo spazio che abitavano, la polvere nelle narici e la nostalgia di muri nell’anima. Ci sono le vittime abusate da una chiesa meretrice, a volte troppo indulgente con i carnefici e dimentica delle sofferenze degli inermi. Ci sono i tanti figlioli che potrebbero tuffarsi nell’abbraccio del Padre Misericordioso di Rembrandt, ma anche i fratelli maggiori dalle vite specchiate, a volte vuote e disperate.
A Lisbona c’è anche Pablo, la storia più bella raccontata in questo inizio di settimana, un giovane morto il 15 luglio scorso, diventato carmelitano “in articulo mortis”, a soli 21 anni, in una stanza dell’Hospedale Clinico di Salamanca, prima che il sarcoma di Ewing che lo torturava da cinque anni lo portasse via per sempre. Come promesso in una lettera a Papa Francesco, consegnata ieri da una giornalista spagnola, faceva “liò” dal cielo accanto a quell’amato, Cristo, che per sua ammissione “gli aveva dato tanto, consolato tanto, reso felice”.
Insieme a Pablo vivo, come cantava De Gregori, c’erano tutti. Perché nella Chiesa c’è posto per tutti, tutti. Tutti. Lo ha urlato Francesco. Un messaggio semplice e rivoluzionario da consegnare. Dio ci ama. Così come siamo, con i limiti che abbiamo, con i peccati che ci portiamo sul groppone. Poche parole. Inevitabili e potenti. La Giornata mondiale della gioventù si offre così, nell’essenzialità. È promessa e dono nell’oggi. Tutti gli altri stiano zitti, per favore.
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