Qualche giorno fa gli analisti di Goldman Sachs che si occupano di economia americana hanno pubblicato un report sulle prospettive di lungo termine dell’inflazione e in particolare sulle forze “strutturalmente inflattive” che la spingono: la transizione green e la deglobalizzazione. Queste due forze sono tanto reali quanto sconosciute al pubblico che ha abbracciato i cambiamenti senza che nessuno si sia mai preso la briga di chiarirne gli effetti. Gli analisti spiegano a quali condizioni questi due cambiamenti potrebbero non essere inflattivi o esserlo in modo contenuto.



La “deglobalizzazione” è il processo in atto che vede l’accorciamento delle catene di fornitura che non obbediscono più solo a ragioni di convenienza economica, ma anche di sicurezza degli approvvigionamenti e al peggioramento delle relazioni internazionali. Il processo è inflattivo perché la produzione di beni si sposta da Paesi che hanno costi bassi e approda a Paesi con costi più alti. Gli analisti di Goldman spiegano che questo non è necessariamente vero e prendono ad esempio il settore dei chip americano spiegando che non ci sono costi aggiuntivi perché “il Chips act e l’Inflation reduction act offrono ai produttori domestici grandi sussidi”. Il Governo americano interviene pesantemente per coprire la differenza di costi. Quanto questo sia sostenibile per i settori coinvolti dalla “deglobalizzazione” e per quanto tempo è una domanda per un altro giorno perché correre con deficit su Pil vicini alla doppia cifra, come stanno facendo ora gli Stati Uniti, alla fine difficilmente non sposta l’inflazione. La condizione perché la deglobalizzazione non sia inflattiva passa o per sussidi statali, se i Governi possono permetterseli, o alla condizione che i costi produttivi siano equiparabili.



La transizione green, continuano gli analisti di Goldman, potrebbe essere inflattiva se “i Governi impongono tasse sulla CO2 od obbligano le imprese a passare a fonti energetiche pulite più costose”. Goldman nota che il Governo federale americano non ha imposto tasse sulla CO2 e solo una manciata di Stati l’hanno fatto. Non solo l’Inflation reduction act americano, stima Goldman, offre sussidi che alla fine arriveranno a mille miliardi di dollari. Sono sussidi ai produttori e ai consumatori. In questo caso il confronto con l’Europa è evidente. L’Unione europea da anni ha imposto tasse sulla CO2 a cui i produttori hanno reagito in due modi: alzando i prezzi o abbassando i volumi entro limiti che non comportino il pagamento di tasse. Nell’Unione europea non c’è niente di lontanamente simile all’Inflation reduction act. Ci sono programmi simili, di dimensioni comunque inferiori, a livello di singolo Paese per chi se lo può permettere. L’Unione europea ha già imposto il passaggio a fonti energetiche più costose: in Italia chiudono o restano ferme centrali tradizionali e si incentivano produzioni molto più costose non fosse altro che per i costi che la loro variabilità impone sul sistema.



Negli stessi giorni in cui gli analisti di Goldman mettono nero su bianco queste considerazioni il consiglio economico nazionale americano pubblica un breve report, consultabile sul sito della Casa Bianca, in cui si legge che “mentre investiamo in settori competitivi e catene di fornitura affidabili l’obiettivo è quello di diminuire il rischio e diversificare dalla Cina”. Sono in atto processi, di deglobalizzazione, che sembrano inesorabili e che muovono grandezze colossali come le catene di fornitura globale. Per non farsi schiacciare da questi cambiamenti e coglierne le opportunità dove possibile serve riportare dentro i confini le produzioni a costi accettabili. Chi non ci riesce si condanna a un’inflazione alta per un lungo periodo di tempo senza beneficiare del miglioramento dei salari. Questo è l’orizzonte che occorrerebbe avere in mente quando si approcciano le questioni energetiche e di politica internazionale.

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