“Gorby il magnifico” – così era chiamato Mikhail Gorbaciov in Occidente al culmine della sua popolarità mentre era ancora il capo comunista dell’Urss – è morto all’età di 91 anni. Ha cambiato il mondo, ma non proprio come lui sperava. Era convinto che alla fine avrebbe con la perestroika (ricostruzione) dato umanità al socialismo e salvato così l’Unione Sovietica. Non era un falsario, questi concetti li esprimeva con franchezza in lunghissimi e monocordi discorsi, ma la storia gli è sfuggita clamorosamente di mano. Era un buon tattico, una tartaruga politica, ma la sua strategia era una gabbia irrealistica che i popoli hanno sfondato, dirigendosi dove loro garbava e non nella direzione che quest’uomo aveva prefissato.



Si chiama libertà. Proprio quella che lui aveva improvvisamente dischiuso quando nel 1985 divenne segretario del Pcus a 54 anni, dopo essere stato il pupillo di Andropov, già capo del Kgb. Fu lui a lasciare che tutti conoscessero la verità sull’orrore dei Gulag, una notizia che fino ad allora non era arrivata alla gente comune. E questo è un merito che nessuno potrà togliergli. Ma non è stato bravo a governare il cambiamento che aveva innescato, il fervore entusiasta dei potenti d’Occidente lo aveva distratto, o forse reso cieco, fatto sta che non si è accorto di come, sotto il suo naso, non si era umanizzato il socialismo, come lui predicava, ma il “mercato” aveva imposto le sue regole rendendo i poveri e sfruttati ancora più poveri e sfruttati.



In Europa e in America, dovunque si spostava, con il vestito blu e il bel cappello di feltro, suscitava emozioni forti. “Ecco un uomo con cui possiamo fare business”, dice Margaret Thatcher. “Il carattere è solido, calmo e libero”, ha giudicato François Mitterrand… Lo stesso Ronald Reagan, un tempo critico sprezzante dell’“impero del male”, è vittima dell’incantesimo. Meno di due anni dopo essere salito al potere, Gorbaciov richiamò il dissidente Andrei Sakharov dal suo esilio a Gorki. Presto saluterà Giovanni Paolo II come “la più alta autorità spirituale della comunità internazionale”.



A Roma seguii nel dicembre del 1989 il suo incontro con Giovanni Paolo II, e la successiva conferenza stampa a Milano. L’Europa dall’Atlantico agli Urali, la casa comune europea, l’Europa che deve respirare con due polmoni. Il muro di Berlino era caduto meno di un mese prima, il 10 novembre del 1989, e gli fu assegnato il Nobel della pace. È paradossale, ma il crollo di quell’atroce barriera fu l’inizio anche della sua caduta. Me ne resi conto alla fine del 1990, quando visitai uno Stato travolto dal caos. Quando da noi era trattato da eroe, nell’immensa Unione Sovietica era già un uomo profondamente detestato, a Mosca e tra i russi, ma soprattutto nelle repubbliche e tra i popoli che non accettavano più di essere parte dell’impero comunista. Questa è stata la miopia di Mikhail Gorbaciov, figlio di un contadino del Caucaso, e che a 20 anni pareva già un predestinato: non capire che il processo da lui innescato sulla base di un cocktail di ideali creduto e di un altrettanto sincero opportunismo (salvare il salvabile della nomenklatura del partito) portava i molti popoli che componevano il mosaico dell’Urss a cercare ad ogni costo l’indipendenza. Alla volontà espressa dai lituani rispose mobilitando l’esercito. Poi si fermò, incredulo davanti alla sua sconfitta, sempre più solo, nella morsa tra i golpisti vetero-comunisti e il troppo liberale e liberista Eltsin, che gli portò via il potere e ammainò la bandiera rossa che sventolava dal 1917 sul Cremlino.

Fu dimenticato e trattato come un rudere, lui rispose con umiltà, adattandosi come Buffalo Bill a girare nel circo come testimonial di questa azienda o del Festival di Sanremo. Nel 1996 a Roma gli fu dedicata una serata in un hotel a piazza della Minerva. Cossiga gli spiegò il nuovo corso della politica italiana, Andreotti ascoltava perplesso: in fondo Giulio preferiva Gromyko e il tempo in cui le Germanie erano due, e c’era un qualche equilibrio tra le superpotenze.

Gorbaciov risulta uno sconfitto della storia, muore dimenticato e senza gloria in patria, in Occidente è visto come un incidente della storia, un dilettante che non ha saputo governare i demòni del popolo russo dopo averli liberati. Un giudizio ingeneroso. Negli anni si era liberato dalla scimmia del Marx/leninismo e cercava di impedire che si inceppasse il dialogo tra Russia ed Europa. Sosteneva: “Non dimenticate che la Russia è europea”. Capiva che questa dimenticanza era contro natura e perciò seme di guerra.

Nel 2019 pubblicò il suo Testamento politico. Rilasciò al riguardo un’intervista a Le Figaro dove vide lontano: “Sotto Putin, la Russia ha fatto una chiara scelta di politica estera: siamo a favore di un mondo multipolare. Putin riconosce il ruolo dell’Occidente nella politica e nell’economia mondiale ed è pronto a collaborare. Vi ricordate, spero, i passi che ha fatto verso l’Occidente, verso gli Stati Uniti. Ma questi passi non sono stati accolti come meritavano. Come negli anni 90, il complesso del vincitore ha impedito all’Occidente di reagire in modo giusto. Non hanno tenuto conto degli interessi della Russia e l’hanno messa davanti al fatto compiuto. Dobbiamo considerare tutto questo quando valutiamo le azioni del nostro Paese. La Russia non accetterà un ruolo secondario negli affari mondiali”.

Senza potere Gorbaciov ci vedeva meglio. Ma i suoi moniti sono stati trattati come il biascicare di un profeta fallito. Peccato.

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