Sedici personaggi ospitati in un dormitorio-sottosuolo, tra vicende dolorose e crudeli conflitti: è il “teatro esistenziale” ricreato da Massimo Popolizio per la sua rivisitazione dell’opera L’albergo dei poveri, scritta da Maksim Gor’kij nel 1902, rappresentata al Piccolo Teatro di Milano fino al 28 marzo, per poi approdare al Teatro Mercadante di Napoli dal 4 al 14 aprile e al Teatro Donizetti di Bergamo dal 17 al 23 aprile.



Il dramma del celebre scrittore russo, conosciuto anche con altri titoli, Bassifondi o Nel fondo o ancora Il dormitorio, fu portato in scena in Italia nel 1947 per l’inaugurazione del Piccolo Teatro di Paolo Grassi e Giorgio Strehler. Grande responsabilità dunque per Popolizio questa nuova rilettura, che risulta in realtà coraggiosa e insieme rispettosa del perenne anelito dell’uomo alla felicità, pur in una condizione di sofferenza e miseria apparentemente impossibili da guarire. Del resto Gor’kij, orfano scalzo che si adattò a tutti i mestieri, incontrò di persona il mondo dei diseredati: lo pseudonimo che scelse per se stesso (il suo vero nome era Aleksej Maksimovic Peskov, 1868-1936) significa proprio “amaro”, come lo è la vita degli emarginati che conobbe negli anni giovanili di vagabondaggio.



Protagonisti dello spettacolo sono uomini e donne derelitti e falliti – ladri, bari, ex prostitute, malati nel fisico e nella mente, disoccupati, ex detenuti, alcolizzati incorreggibili e persino un devoto migrante islamico (un innesto tratto dal mondo contemporaneo) –, espulsi da una società ricca e indifferente al loro destino. Le vicende si intrecciano tra sentimenti di amore incerto e legami fragili e spesso non sinceri, attraversati da dubbi e speranze, domande profonde e scottanti delusioni. La vita sembra riprendere la strada di una possibile rinascita quando nel pensionato-dormitorio giunge Luka (ben interpretato dallo stesso Popolizio), inaspettato e misterioso pellegrino. Con lui si apre uno squarcio di umanità e compassione che risuona di una profonda spiritualità, che tuttavia non riesce a ridare piena fiducia ai poveri abbandonati. Non possono non colpire lo spettatore le “fulminanti interrogazioni sul fato, sui flutti del tempo, sulla vita, sulla morale, sulle pieghe del dolore, sull’ineluttabilità del male, non ultimo sul nucleo ignoto della presenza di Dio”, come acutamente osserva Claudio Longhi, direttore del Piccolo Teatro.



È in scena insomma il mistero indecifrabile della condizione umana che, oggi come allora, ci interpella. Emerge attraverso le parole dei personaggi, specchio dei tanti volti del destino. Popolizio, collaborando con lo scrittore Emanuele Trevi, ha genialmente introdotto nel dramma di Gor’kij micro-inserzioni di altri autori come Cechov, Tolstoj, Puskin e persino McCarthy, che rendono in modo efficacissimo dubbi, delusioni e speranze.

Un tema fondamentale è sicuramente quello della “verità”. Nataša, la ragazza di cui è innamorato uno degli ospiti del dormitorio, riconosce paradossalmente con sincerità: “Anch’io invento, invento sempre e aspetto che succeda qualcosa di straordinario”. Altri personaggi si chiedono: “A che serve la verità? La verità non è sempre un bene”. Dunque siamo in balia dell’illusione o dell’inganno? Luka stesso, il saggio pellegrino, è forse solo un pifferaio magico, che tenta di liberare i personaggi, raccontando loro che esiste un mondo fuori dai bassifondi in cui sono tragicamente rintanati? Ma c’è un Dio che può dare davvero questa speranza?

Siamo di fronte a temi universali che vanno diritto al cuore del pubblico. Che si ritrova catapultato in un mondo disperato e tragicamente cinico persino nella comune miseria; e, in fondo, non molto diverso da quello contemporaneo. Eppure permane irresistibile un desiderio di cambiamento, a tratti ridotto a pura immaginazione, come nel caso della ragazzina Nastjia che vive immersa nel racconto del libro Amore fatale; o si aggrappa alle illusorie promesse del pellegrino, che sembra quasi un santo, ma forse è solo un cialtrone. Quell’uomo comunque vive una spiritualità profonda di cui tutti hanno sete, nel mondo di Gor’kij come nel nostro. Soprattutto di fronte alla morte, che nello spettacolo colpisce ben tre protagonisti. Una donna in fin di vita chiede a Luka: “Come sarà l’altro mondo?”. Lui non lo sa, ma ne ha certo paura. Si limita a raccontare una fiaba dolce per confortarla. Quello della morte è un tema più che mai contemporaneo, riconosce lo stesso Popolizio, in un mondo, aggiungiamo noi, che la vuole negare e dove non si può parlare dell’ultimo istante se non per arrogarsi il “diritto” di decidere quando farlo arrivare.

La domanda sull’esistenza di Dio, connaturata all’inquieto animo russo di Gor’kij ma in realtà all’uomo di ogni tempo che non abbia abdicato alla sua interiorità, percorre come un filo nascosto tutto lo spettacolo, esattamente come accade nella vita di ciascuno di noi, a patto che che non si sia fatto inghiottire dall’oblio della disumanizzazione, imposta anche da una tecnologia sempre più potente e pervasiva.

Insomma, Gor’kij nella versione di Popolizio ci invita a ritrovare la nostra anima, la nostra spiritualità, la nostra fede, unica possibilità per guardare l’essere umano, in qualunque condizione si trovi, con quel rispetto assoluto che la sua dignità richiede. Così il teatro è capace di risvegliare le domande più profonde e più vere dell’uomo. E vale la pena riscoprirlo.

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