“Caro signor Sindaco, non so quale sia il suo partito, né m’interessa saperlo. Bado al ruolo, non all’appartenenza politica. (…) Roma ignora la nostra fame di riforme (…). Da Roma dunque riforme zero; se andasse bene, al massimo poche e tardi. Potrebbe pensarci la base, cioè i cittadini. Ma la «gente» è gergo da tv, il «popolo» da retorica, l’«opinione pubblica» da dibattiti chic. Non ce la facciamo. Qui ci vuole un soggetto terzo: i sindaci. Con tutti i limiti di un ceto dirigente alla ricerca del tempo perduto, voi rappresentate il meglio che abbiamo. Caro signor sindaco, eletto finalmente in via diretta, lei «è» la gente, tutta, anche chi non l’ha votata o le ha votato contro. (…) Da solo, lei conta poco o nulla per questo obiettivo. Se aggregato a tanti, ma dello stesso colore politico, la forza d’urto perderà ben presto vigore. Ma centinaia di sindaci di ogni tendenza, capaci di trascinare le loro Regioni e di battere durissimi pugni a Roma, farebbero (…) un’avanguardia. Solo con i sindaci si può fare la «rivoluzione». Abbiamo bisogno di amministrare per togliere ostacoli al cittadino, non per strozzarlo”.
È la famosa “Lettera aperta ad un Sindaco del Nord Est” scritta nel 1995 dall’allora direttore de IlGazzettino, Giorgio Lago, lettera che gettò le basi per il “Movimento dei Sindaci”, nato qualche tempo dopo, con l’allora sindaco di Venezia Massimo Cacciari e con quello di Oderzo Giuseppe Covre. Scopo dichiarato: un federalismo che parta dal basso, dai sindaci di paese e città. Nel vuoto assoluto della politica, se si vuole provare a progettare il futuro, da dove ripartire se non dal livello più vicino alla vita dei cittadini, e cioè proprio dai sindaci e dagli amministratori locali?
Sono trascorsi 27 anni, in una sostanziale stagnazione politica fatta di alti e bassi, di populismi, di leader da megafono e da social, di crisi economiche che hanno dettato l’agenda, di sintomatiche spinte di sardine-meteore, di nascite di movimenti “guai a chiamarli partiti” e di partiti “meglio non mettere il simbolo sulle liste”: sinusoidi tra una proporzionalità ecumenica e un bipolarismo inespresso. “Il Paese è oggi un ingranaggio arrugginito che deve essere portato in condizioni di funzionare. Per farlo bisogna uscire dalla logica che porta a ritenersi sempre i numeri uno. (…) Dobbiamo ancora maturare la consapevolezza che la macchina sta perdendo colpi e va riassestata”: sono parole di Luca Zaia, governatore del Veneto dal 2010, riportate nel suo recente volume “Ragioniamoci sopra – Dalla pandemia all’autonomia” (2021 – Marsilio).
Sono trascorsi 27 anni, ma i sindaci (eletti direttamente dal ’93, proprio nel tentativo di ricostruire un minimo di fiducia tra cittadini e istituzioni, dopo il terremoto di Tangentopoli), e i presidenti di Regione restano ancora oggi i riferimenti per una rappresentanza di prossimità, più “sentita” e in sincrono. Ogni anno la valenza di questi amministratori viene pesata dal Governance Poll (realizzato da Noto Sondaggi per il Sole 24 Ore), che ne calcola il “gradimento”. L’edizione 2022 ha preso in considerazione 78 comuni capoluoghi di provincia e 18 Regioni in cui vige la regola dell’elezione diretta (i 26 comuni in cui il sindaco è stato eletto lo scorso giugno non rientrano nella classifica). Sarà un caso, ma le due classifiche vedono al primo posto il Veneto, Luigi Brugnaro sindaco di Venezia (65% di gradimento), il primo cittadino più amato d’Italia, e Luca Zaia (70%), che al podio ha fatto l’abitudine: è suo fin da quando fu eletto, nel 2010.
La volontà (non si sa quanto sbandierata o quanto davvero sentita) di smistare il potere dal centro alle periferie, conferendo a governatori e sindaci valenze e visibilità inedite, più o meno da vent’anni ha identificato questi amministratori quali garanti, non solo di una democrazia allargata alla città diffusa, ma anche di una contrattualità di peso sul Governo centrale. Tanto che, da qualche anno, sia alcuni sindaci (i più “amati”, e quasi sempre anche i più “visibili”), sia alcuni governatori (idem) abbiano cavalcato un upgrade che li ha trasportati su scenari nazionali, sia quali virtuosi manager di cosa pubblica, sia quali tessitori di neoformazioni politiche. Zaia, ad esempio, è stato il presidente più seguito in tv e intervistato dai giornali durante tutta la pandemia, e proprio la gestione della sanità pubblica è oggi il primo capitolo di ogni amministrazione regionale. Nella costruzione collettiva di un ranking di rappresentanti pubblici, l’aver gestito bene la sanità in un momento difficile equivale a saper gestire bene anche qualsiasi altra faccenda. Il sindaco Brugnaro invece, spinto ovviamente da una convinta base, aveva creato Coraggio Italia, in tandem con il governatore della Liguria, Giovanni Toti (poi leader di Italia al Centro), una formazione che non ha trovato una solida continuità. Ma Veneto a parte, non mancano altri esempi. Uno tra tutti: Giuseppe Sala, sindaco di Milano (al quarto posto, con il 60% dei consensi), che viene indicato quale ottimo manager ma anche come affidabile politico, mix ideale per garantire futuro ad un centrosinistra di campo largo.
Nel Governance Poll, comunque, tra i sindaci dopo Luigi Brugnaro, si piazzano Marco Fioravanti (Ascoli Piceno, 64%), Antonio De Caro (Bari, 62%), Giuseppe Sala, Gaetano Manfredi (Napoli) ex aequo con Matteo Lepore (Bologna) al 59,5%. I primi cittadini di Torino e Roma, Stefano Lo Russo (15esima posizione) e Roberto Gualtieri (a metà classifica), rimangono sopra il 50%.
Tra i Presidenti di Regione, dopo Luca Zaia (70%) ecco un altro leghista, Massimo Fedriga (Friuli Venezia Giulia, 68%), Stefano Bonaccini (Emilia Romagna, 65%), Giovanni Toti (Liguria, 61%), Roberto Occhiuto (Calabria), Vincenzo De Luca (Campania). Settima posizione al Presidente della Lombardia Attilio Fontana e a quello della Sicilia Nino Musumeci (entrambi con il 50%).
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