Per il Governo è arrivato il momento di entrare nel merito delle riforme annunciate. La riforma della giustizia oscilla ancora tra gli annunci del ministro Nordio e la realtà: l’ex magistrato veneto mentre insiste nel proporre una filosofia garantista e parla di ridurre la carcerazione preventiva, appoggia l’aumento delle pene nel caso degli scafisti da inseguire “per l’orbe terracqueo”. Aspettiamo di vedere quale sarà la vera strategia quando prenderà corpo un provvedimento organico. Il fisco è altra questione chiave sulla quale le idee sono diverse nella maggioranza. Sono uscite ampie anticipazioni di una legge delega che dovrebbe essere discussa questa settimana in Consiglio dei ministri e poi, una volta approvata dal Parlamento, realizzata dal 2025. Due anni di tempo sono infatti necessari per sbrogliare una matassa quanto mai intrecciata.
Il viceministro Maurizio Leo, plenipotenziario fiscale di Fratelli d’Italia, ha annunciato che la riforma avrà tre obiettivi: mantenere la progressività prevista dalla Costituzione, garantire “l’equità orizzontale” e semplificare. Non c’è l’obiettivo più importante, quello che davvero farebbe compiere un salto di qualità non tanto al barocco sistema di tassazione sui redditi, ma all’economia italiana: la riduzione della quota assorbita dallo Stato, in altre parole la pressione fiscale che oggi sfiora il 44% del prodotto lordo, un record assoluto raggiunto nel 2022, l’anno in cui si sono cumulati bonus e sostegni che hanno gettato veri e propri macigni sul bilancio dello Stato. Il quarto obiettivo (dovrebbe essere il primo se si volesse davvero “rovesciare come un calzino” anche il fisco) manca per una buona ragione: nessuno sa come e dove trovare le risorse per compensare l’eventuale mancanza di entrate tributarie.
Quest’anno bisogna ridurre un deficit pubblico che s’avvicina al 5% del Pil, mentre l’aumento dei tassi d’interesse rende più costoso finanziarsi sul mercato e l’inflazione offre un beneficio puramente aritmetico al debito pubblico che continua a crescere in quantità. A peggiorare il quadro c’è il Quantitative tightening, cioè la Bce non comprerà più i titoli di stato. Presentare una riforma che apre una voragine nel bilancio è del tutto irrealistico. Si potrebbe compensare con una riduzione della spesa, ma questo è un tabù che nessuno osa sfidare, a destra come a sinistra. Non solo, tutto fa pensare che le uscite continueranno a sopravanzare le entrate.
Prendiamo il superbonus o anche il nuovo Reddito di cittadinanza. Le misure annunciate seguono un percorso corretto che punta a ridurre il loro impatto negativo sui conti pubblici, tuttavia non c’è nessun taglio netto. Il Mia (Misura per l’inclusione attiva) non è solo un cambio di nome, il provvedimento viene ridimensionato limitandolo agli “occupabili”, però non scompare. Meno risorse andranno ai single e più alle famiglie, ma il calcolo costi e benefici lo si farà a posteriori, anche perché si tratta ancora di una bozza. Il superbonus scende dal 110% al 90% per quest’anno e via via negli anni successivi, fino al 65% nel 2025, tra le proteste di inquilini e aziende edili, in ogni caso si tratta pur sempre di incentivi consistenti.
Può darsi che di qui alla fine della legislatura tutti i calzini saranno rovesciati, per ora si tratta di rammendi, sia pur necessari, che si muovono lungo lo stesso percorso compiuto dal Governo Draghi lo scorso anno. Ciò vale anche per il fisco. Prendiamo l’Irpef: la proposta è di ridurre le aliquote a tre come già indicato dal Governo precedente: 23%, 33%, 43%, ma c’è chi vorrebbe che la seconda aliquota scendesse al 27%, una soluzione considerata troppo costosa dai tecnici di Giancarlo Giorgetti. Per recuperare parte delle risorse perdute, si pensa di ridimensionare gli sconti fiscali (ben 600 voci che talvolta persino annullano il gettito). Anche questo lo aveva proposto il Governo Draghi suscitando non solo gli attacchi di Fratelli d’Italia all’opposizione, ma anche le critiche radicali della Lega e di Forza Italia in maggioranza.
Disboscare la giungla è fondamentale, ma se da una parte si prende e dall’altra si dà, la pressione fiscale non scende. Lo si desume anche dalle proposte che riguardano l’Iva e le imposte sulle imprese. Resta appesa al futuro la bandiera della Lega: la flat tax al 15%. Il principio viene accolto e dovrebbe essere esteso, si vedrà come, anche ai lavoratori dipendenti e ai pensionati, però l’orizzonte s’allunga a cinque anni, scavalcando persino la fine della legislatura ammesso che duri tanto.
Nessun aiuto alle entrate dello Stato verrà da un’altra rogna diventata ormai una tediosa telenovela: la parte della riforma della concorrenza che riguarda le concessioni balneari. Il Governo ha preso un altro anno di tempo, il Consiglio di stato ha bocciato la scelta, Lega e Forza Italia insistono. Una cosa è certa: il rinvio è anch’esso costoso; congelare la situazione significa prorogare la possibilità di aumentare le entrate eliminando l’iniquità di beni pubblici assegnati non si sa come e praticamente gratis. Un altro buco e si riduce a zero la possibilità che il nuovo fisco sia non solo più semplice ed equo, ma più leggero per tutti.
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