Il Meeting di Rimini è stato ancora una volta l’occasione per un confronto a tutto campo sulle priorità dell’autunno, con due grandi punti interrogativi: la legge di bilancio e il Patto di stabilità. Sul primo il ministro Giorgetti è stato chiaro: le risorse sono poche, non ce ne saranno per tutto e per tutti. Sul secondo il ministro Fitto ha espresso timori ben fondati: se da gennaio si tornerà ai vecchi, rigidi vincoli (un limite del 3% del Pil per il disavanzo pubblico e del 60% per il debito) gli spazi di manovra si ridurranno davvero al minimo, anche perché i tassi d’interesse elevati (4,5% e forse anche più) rincarano il costo del debito (ci vorranno come minimo 80 miliardi di euro per pagare gli interessi).
La discussione su una riforma caratterizzata da maggiore flessibilità, con negoziati caso per caso e Stato per Stato, ammesso che sia una buona soluzione (la Germania chiede che non si lasci tutto alla discrezionalità politica, ma si mantenga una regola fissa per tutti), s’è arenata ed è forte a questo punto il rischio che, in assenza di accordo, si torni al passato. Il Governo italiano ha intenzione di avviare un negoziato mettendo tutte le uova in un solo paniere (a cominciare dall’approvazione del Meccanismo europeo di stabilità), ma non ha una controproposta sul Patto di stabilità se non la richiesta di un nuovo rinvio. Peccato, la sua posizione al tavolo sarebbe più forte se avesse una base certa per il rilancio.
Non sarebbe male se Giorgetti, Fitto e la stessa Giorgia Meloni si rileggessero con attenzione il discorso che Mario Draghi ha tenuto a Cambridge nel Massachusetts martedì 11 luglio scorso. L’ex presidente del Consiglio ha detto senza mezzi termini che “le regole di bilancio erano state costruite attorno a limiti di bilancio, con un tetto del 3% del Pil, che hanno creato una prociclicità intrinseca”. Che cosa vuol dire? “Ogni volta che un Paese cresceva rapidamente avrebbe visto entrate inaspettate che avrebbero fatto sembrare il tetto del deficit allentato, portando a sua volta a impegni di spesa crescenti e deficit più elevati. Ma se il ciclo avesse avuto un cambiamento brusco quelle entrate sarebbero svanite mentre gli impegni sarebbero rimasti riducendo rapidamente lo spazio fiscale”. Da anni in Italia si discute di “tesoretti” che fanno sperare, poi si sciolgono come neve al sole. Dunque, c’è un vizio di fondo, riproporlo sarebbe cieco e pericoloso soprattutto oggi con le nuove sfide da affrontare: la guerra in Ucraina, la transizione energetica, la competizione tecnologica con la Cina, la crisi della globalizzazione.
Draghi ricorda il fatale errore commesso nel 2010 con l’accordo di Deauville che paventava la minaccia che “i futuri salvataggi sarebbero stati soggetti alla ristrutturazione del debito”, il che “ha iniettato il rischio di credito in tutti i titoli sovrani” a cominciare da quelli spagnoli e italiani (la Grecia era già in default). È una polemica che da anni conduce il centrodestra. Non è stato il Patto a salvare l’euro e garantire la stabilità finanziaria, ma è stata la svolta operata nel 2012 dalla Bce guidata da Draghi. Nonostante ciò, non c’è accordo sulla riforma, tanto meno “su un bilancio centrale a fini di stabilizzazione o sui trasferimenti fiscali transfrontalieri”, cioè le due condizioni che dovrebbero accompagnare la politica monetaria e attenuarne gli effetti negativi sul ciclo economico oggi che occorre aumentare i tassi per ridurre l’inflazione.
È questa, dunque, la prima delle proposte da presentare in una ipotetica trattativa. Ed è rafforzata dalla constatazione che nelle condizioni attuali, spiega Draghi, aumentano i problemi comuni, “questo sposta il problema dal sostenere gli Stati in difficoltà all’affrontare sfide condivise”. Il Next Generation EU è stato un passo importante, ma rischia di diventare un’eccezione, perché “una volta scaduto non vi è alcuna proposta di uno strumento federale che lo sostituisca”. E qui veniamo ai due suggerimenti concreti: 1) una spesa comune, “federalizzata”, cioè in capo all’Unione Europea per una parte delle risorse necessarie a raggiungere gli obiettivi condivisi; 2) “l’emissione di debito comune per finanziare questo investimento”.
Peccato che le proposte di Draghi (bilancio europeo, trasferimenti sovranazionali, spese comuni per investimenti finanziate da eurobond) non abbiano ottenuto la necessaria attenzione da parte del Governo e dell’opposizione. L’Italia siede al tavolo senza una strategia nazionale, si è parlato di sottrarre alla regola del 3% le spese per investimenti, ma non si tratta di togliere, si tratta di aggiungere, secondo Draghi, seguendo una strategia che superi i dannosi limiti del Patto il quale, a quel punto, avrebbe davvero come obiettivo la crescita, su basi nuove, accanto alla stabilità.
Non è troppo tardi per ripensarci riprendendo in mano l’agenda Draghi. È l’unica strada per uscire da un impasse che danneggia il Paese.
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