Se si può essere crudi senza scadere nell’offesa, si deve confrontare il cosiddetto altolà di Zingaretti lanciato ieri sera contro Di Maio che ha alzato la posta presentando il documento dei 20 punti programmatici: “Basta ultimatum!” con il discorso dello stesso segretario Pd alla Convenzione nazionale del partito il 3 febbraio a Roma. “Io, ve lo dico davanti a tutti e lo dirò per sempre – declamò, qui, con voce quasi rotta dalla commozione! – mi sono perfino stancato, e lo trovo umiliante, di dire che non intendo favorire nessun’alleanza o accordo con i Cinquestelle, li ho sconfitti due volte e non governo con loro, imparassero a sconfiggerli coloro che mi accusano di questo, non il contrario!”.



Con quale credibilità può oggi intimare “basta ultimatum” uno che sette mesi fa proclamava il contrario di quel che sta facendo?

Zingaretti è una brava persona, ma è politicamente debolissimo, avendo accettato di essere utilizzato come “stato cuscinetto” tra l’ex cacicco Matteo Renzi con i suoi pretoriani e un’opposizione interna incerta e dissonante.



Zingaretti è uno che appena sette mesi fa usava quei toni contro i grillini e che ora ha ceduto a Renzi, pur sapendo perfettamente che il suo partito da un ritorno alle urne avrebbe avuto tutto da guadagnare perché avrebbe raccolto a piene mani gli elettori profughi del Movimento 5 stelle in caduta libera di consensi.

Zingaretti ha ceduto a Renzi che, al contrario, vuole occupare fino all’ultimo il potere che può occupare attraverso gli attuali eletti Pd, che sono quelli scelti ancora da lui per le liste elettorali del 2018, e vuole determinare una buona metà delle 218 nomine (o meglio 400, a voler contare anche quelle collegate) nelle aziende e negli enti pubblici che vanno fatte entro un anno da oggi. Punto: unico interesse, quello del Paese non è mai esistito, proclami a parte. La riconoscenza per una nomina è una sopravvivenza al potere anche dopo un fine-mandato politico, una polizza economica, è linfa e vita per tutti i veri professionisti della poltrona.



Dall’altra parte c’è un partito mai nato, i Cinquestelle, tirato da tutti le parti, nave senza timone, con un capo politico ormai soltanto autonominantesi tale ma senza avalli, un fondatore ex comico che entra ed esce di scena oltrepassando ampiamente i limiti del vilipendio alle istituzioni e un gruppetto di dissidenti interni pronti a impallinare la nuova maggioranza negando al Senato la fiducia al governo, un po’ come fece Bertinotti contro Prodi (niente di nuovo sotto il sole).

Un Movimento mai diventato partito, che unisce al suo interno profughi missini ed ex pidiuppini, ultrasinistra e ultradestra, facinorosi dei Vaffa day e colletti bianchi in fregola di visibilità, finti vergini della politica e autentici aspiranti boiardi, che avendo visto per la prima volta tutti insieme 10mila euro al mese di stipendio sarebbero portati a incatenarsi alle poltrone di Montecitorio o Palazzo Madama piuttosto che farsene privare.

Attribuire a quest’insalata capricciosa di mediocri – con qualche eccezione, si capisce, ma veramente poche – capacità tattiche, strategiche o negoziali di cui veramente non s’intravede ombra, è francamente ingenuo o velleitario, o forse è figlio di quel dietrologismo specialistico che è più dei commentatori e dei politologi, rimasti quelli della vecchia generazione, che non dei protagonisti, venuti giù con la piena della post-politica e dei social network.

Scrutare il toto-ministri come sede dell’accordo o del dissenso, soppesare la forza e la tempistica dei tweet di endorsement pro Conte di un altro pazzariello della scena globale com’è Trump è un altro errore. Siamo in realtà veramente all’Hellzapoppin’.

E questo vale anche per Conte: certo, parla bene, è educato, non erutta in pubblico e padroneggia l’inglese e forse anche il diritto. Non è poco, al confronto col niente.

Ma politicamente, chi è? Da dove viene? Dove va? Quanti italiani che oggi, interpellati dai sondaggi on-line (sempre i soliti campioncini di bassissima validità statistica) dicono di stimarlo, lo voterebbero mai se facesse un partito suo?

Di certo si sa che il 20 agosto ha avuto il coraggio di dire a Salvini che lo considerava pericoloso per tutto quel che aveva fatto da ministro, e non di limitarsi – come sarebbe stato lecito – a dirgli che lo considerava sleale per aver rotto l’alleanza. Dov’era Conte, intanto che Salvini diventava quel pericolo pubblico che lui ha dipinto a Palazzo Madama?

Di certo si sa che Conte non ha battuto ciglio quando i suoi capi – già, i suoi capi! Perché tali sono Di Maio e Casaleggio – hanno detto, dopo l’assegnazione dell’incarico esplorativo decisa da Mattarella – che comunque il varo del nuovo governo sarà subordinato al voto della piattaforma Rousseau. 60mila elettori su 10 milioni, il sei per mille, che si prendono il diritto di decidere per il popolo italiano? Ma scherziamo? È un’altra bestemmia in chiesa, un altro borborigmo a tavola. Un’offesa gratuita a un Presidente della Repubblica che, fedele a un senso delle istituzioni superiore ai richiami di alcune ambigue figure che lo hanno preceduto sul Colle, si limita al ruolo di arbitro garante che le regole gli assegnano e non pretende di comandare lui le danze.

Avrebbero dovuto cominciare, i Cinquestelle, e non finire dal voto della piattaforma. Ma come le riunioni in streaming, abolite difronte al prevalere degli interessi, così anche questi referendum on-line stanno per fare una brutta bruttissima fine: come una cipria consumata, finita la polvere rosa e raggiunto il desiderato effetto-trucco, stanno rotolando tutti nella pattumiera.

Tutto è ancora possibile, insomma: e non solo nelle prossime ore, ma anche nei prossimi mesi. Se anche il Conte 2 vedrà la luce, la sua vita sarà sempre scandita da questo tasso di litigiosità. Come pensare il contrario? Il collante degli interessi – la poltrona, l’appannaggio, il potere – è forte, ma non bisogna mai dimenticare che il potere acceca. Leggasi alla voce Renzi, nel 2018; e Salvini, nel 2019.