La seconda ondata di Covid-19, che stiamo oggi cercando faticosamente di affrontare, sta mettendo in luce dei mali che hanno radici profonde. Oggi infatti si assiste ad una discussione tra il Governo nazionale e le Regioni in cui emerge il fallimento del rapporto tra livelli di governo, quello centrale e quelli locali, da anni incapaci di dare una forma costituzionale e legislativa coerente con la necessità di individuare i reciproci ruoli e di gestire, forti di una esperienza consolidata, un’emergenza sanitaria inaspettata, che necessita – per il suo superamento – di coesione e di profonda sensibilità istituzionale.
Dopo decenni di scontri e di tentativi di sopraffazione non stupisce che i nodi vengano al pettine. Prima, in modo paradossale, sembra di essere di fronte a regioni che sono “centraliste” e a un governo incapace di gestire la complessità di un territorio con ampie differenziazioni, la cui autonomia non è stata mai percepita nel suo vero senso, quello di avere come riferimento norme omogenee ma adattabili alla diversità. Pertanto il governo nazionale risulta essere ampiamente federalista, ma solo in quanto impotente.
Poi accade il contrario: come mai a marzo il governo nazionale si è mosso da solo, gestendo l’emergenza in modo uniforme pur con una grande diversità di livelli di infezione e con scelte differenziate (Codogno contro Alzano Lombardo e Nembro) inspiegabili? E adesso, con le vicissitudini dell’ultimo Dpcm, si replica.
La domanda pare non avere risposta. In Costituzione pare non vi sia nulla che possa fare da punto di riferimento. La legislazione ordinaria prevede emergenze ordinarie e localizzate. Le scelte sono state fatte tutte dal Governo in assenza di discussioni parlamentari e con le Regioni a fare da comparsa. Uno scenario davvero cupo.
È per questo che uno sguardo al passato può aiutare a capire: che cosa è mancato? Certamente è mancata una consuetudine di rapporti istituzionali con chiare competenze, con una ferma volontà di collaborazione, maturata dentro istituzioni comuni, trasparenti, capaci di orientare l’opinione pubblica spiegandole le diversità di responsabilità e gli scopi comuni. Si può dire che, oggi più che mai, si sente la mancanza di una Camera delle Regioni, di non aver creato cioè un luogo, a livello nazionale, in cui si sia elaborata una capacità di interlocuzione, di discussione aspra ma franca, di scambio positivo di esperienze, sia verticalmente, con le istituzioni nazionali, sia orizzontalmente, con le altre istituzioni radicate nei territori. È mancata insomma una storia istituzionale, un terreno comune, basandosi sul quale si può affrontare il nuovo, il diverso, l’imprevisto, il drammatico.
Così la disgregazione rischia di essere il nostro destino come Paese, in cui prevale lo sfruttamento reciproco, le accuse, i risentimenti e l’opportunità politica.
Eppure, si può ricominciare. Anzi, si può cominciare, e far si che il teatrino della politica possa diventare un teatro, dove vi può essere – come ha detto Gigi Proietti – talvolta finzione (o altra forma espressiva della limitatezza umana) ma mai falsità.