Una volta, quando si diceva “rosso”, si pensava – in Italia – prima al vino e poi a un comunista. Al semaforo, mai. Adesso si pensa al lockdown: ma è l’ambiguità di senso con la politica che non avrebbe dovuto perdersi, perché se c’è qualcosa di politico, politicissimo, in questo momento, sono le zone colorate che scandiscono caoticamente e dolentemente questa ulteriori settimane di restrizioni anti-Covid.
Fuori dai denti: Lombardia e Sicilia in zona rossa perché politicamente azzurre? No: pensare così è da dietrologi ubriachi. Perché disallineate dal governo giallorosso? Un po’, sì, un po’ anche. Non c’entrano le divisioni semplici e chiare della prima repubblica, già bistrattate nella seconda. Nell’attuale aborto di terza repubblica di cui si fanno da tre anni prove tecniche fra Palazzo Chigi, Montecitorio e Palazzo Madama, il punto di impazzimento della maionese politica è proprio nella cerniera tra poteri centrali e locali dello Stato, mai così stressata come oggi sia perché il Covid-19 sta stressando ugualmente tutti noi, sia perché è sulla sanità che il federalismo imperfetto – che, tra gli altri mali, ci affligge – ha espresso il meglio e il peggio di sé.
E dunque una gestione governativa romanocentrica dell’emergenza pandemica – nel Comitato tecnico-scientifico c’è uno straordinario addensamento di luminari romani, come se a Sud e a Nord del Tevere la virologia fosse sconosciuta – mal s’ingrana con la realtà di un sistema sanitario delegato ai territori. E il fantozziano ricorso al Tar della Regione Lombardia (quella siciliana, a onor del vero, è causa del suo lockdown, essendo stato proprio il governatore Musumeci a richiedere il colore più severo) è solo un sintomo di questa incomunicabilità tra regimi.
Il fatto è che a livello regionale il sistema elettorale ha generato un presidenzialismo leaderista compiuto, che spiega le singolari leadership di Zaia a Venezia, De Luca a Napoli, Emiliano a Bari; mentre a livello centrale il leaderismo è un’aspirazione fantozziano-eversiva, ovvero è eversiva quando prova a fare sul serio – come provò Berlusconi, poi imitato da Renzi e sta provando Conte – e fantozziana perché poi all’atto pratico non ci riesce.
Cosa deriva da questo micidiale insieme di ingredienti? Deriva che le misure restrittive anti-contagio decise dal governo sono lente, farraginose e inefficaci perché, con tutta evidenza, non rallentano i contagi e la gente esasperata le osserva sempre meno, peraltro sempre meno perseguita dalle forze dell’ordine, che quando la sera, a casa, svestono la divisa si ritrovano pari-pari nel novero della gente esasperata; ristoratori ed esercenti protestano e meditano, e annunciano smentendosi, di rialzare le serrande. La realtà-vera è ignota, perché i dati dell’Iss sono secretati e non si conoscono, e se filtrano, filtrano tardi. L’unica vera e perentoria risposta, paternalistica finché si vuole ma salvifica, sarebbero i ristori ma quelli, nel concreto, non si vedono. Lo ha ben sintetizzato la Fipe, ultimo organo funzionante dell’inerte corpaccione della Confcommercio, periziando il danno ad oggi subito dal settore della ristorazione, bar compresi, in 40 miliardi di fatturato in meno e 300mila posti di lavori perduti.
E mentre l’Italia dei garantiti – pubblico impiego, pensionati e dipendenti delle grandi aziende e delle poche aziende rafforzate dal Covid (telecomunicazioni, informatica, alimentari e finanza) – ricevono a casa gli stipendi di sempre, ingigantiti dalla gelata dello shopping, l’Italia dei non garantiti fa letteralmente la fame. E i ristori promessi o sono irrisori o non arrivano.
Rispetto ai 40 miliardi di crollo dei ricavi denunciato dalla Fipe, ad oggi i ristori stanziati davvero sono soltanto 2,5 miliardi, e non sono ancora arrivati. E se i 300mila disoccupati dei ristoranti sperassero di essere davvero aiutati dal governo, il medesimo avrebbe dovuto stanziare almeno 12mila euro su base annua per ciascuno di essi, a conti fatti la bazzecola di 3,6 miliardi solo per loro. Ma figuriamoci.
E la crisi di governo? Certo, viene da chiederselo. Ma credeteci: non c’entra niente. Non è una crisi di governo, è una crisi di nervi di Matteo Renzi. Che stavolta ha ragione da vendere, nell’essersela fatta venire. Peccato che, con uno come lui, le ragioni di oggi sono ferocemente smentite dalle ragioni di ieri e a loro volta queste sono smentite da quelle dell’altro ieri. Insomma, quando oggi Renzi spara su Conte dovrebbe dir grazie a se stesso se l’Avvocato degli italiani è ancora lì, puntellato da quel Pd, e dai suoi profughi di Italia viva, che un anno e mezzo fa avevano il dito sul grilletto delle elezioni anticipate e non lo premettero – anche e soprattutto a causa delle tesi renziane – sparando la pallottola d’argento, per paura di perdere il confronto nelle urne col Capitano del Papeete.
La crisi, al 99,9%, verrà superata dai cosiddetti costruttori, ignobile eufemismo per definire i nuovi voltagabbana. Alla fin fine Giuseppe Conte uscirà come solo vincitore da questa convulsione nevrotica, e condurrà al suo naturale termine la legislatura di questi parlamentari smarriti e impauriti, abbarbicati alla poltrona come cozze agli scogli, sicuri per una buona metà di non poter mai più rivedere quegli scranni e quegli uscieri.
Conte, archetipo democristiano, stakanovista narcistista, mediatore instancabile e coniglio mannaro, avrà la meglio sul vero nemico che ha, ossia il fuoco amico. Chi sta malissimo in queste ore è infatti l’ectoplasma Di Maio, l’uomo che più di tutti al mondo odia Conte e pure, per una feroce nemesi storica, è costretto a puntellarlo, contemporaneamente puntellando se stesso per l’inazione con cui ha lasciato che i Cinquestelle s’inabissassero nella considerazione degli italiani persino oltre quel che meritano.
E chi bene non sta è pure quell’altra piuma al vento di Zingaretti, bravo cristo con l’unica pecca di aver voluto fare politica, che ha dimostrato all’Italia come non si fa il segretario di quello che fu un grande partito ed è ridotto al ruolo di reggimoccolo dell’innaturale connubio tra l’Avvocato con la pochette e il garante del Quirinale.
Per inciso: senza che nessuno si preoccupi di riscrivere una legge elettorale che – ed è questo il vero problema – non garantisce in benché minima misura contro il rischio che alla prossima tornata politica un popolo di neonati politici quale noi siamo generi un altro quadro di radicale ingovernabilità quale quello emerso dalle urne del 2018.