Erano partiti per spadroneggiare, sono tornati pesantemente ridimensionati. Con il passare dei giorni, la piega che sta prendendo questa crisi di governo penalizza sempre di più gli azionisti di maggioranza del vecchio governo, cioè Giuseppe Conte e il Partito democratico di Nicola Zingaretti. Quando Matteo Renzi ha cominciato a picchiare i pugni sul tavolo, Conte e Zinga si sono arroccati. Niente accordi con il Bullo di Scandicci, o Conte o morte, li asfalteremo, e via dicendo a muso duro. Cose che nella Prima repubblica, quando c’erano i “professionisti della politica” tanto vituperati da Silvio Berlusconi in poi, non si sarebbero mai viste. Allora era chiaro a tutti che il compito della politica non era di rompere, ma di mediare, unire e portare a casa qualche risultato.



L’abbraccio a Conte è stato mortale per Zingaretti. Mentre il M5s si sfaldava, il Pd doveva essere lo zoccolo duro della coalizione giallorossa, quello che faceva da raccordo con Bruxelles e tranquillizzava il Quirinale sull’operato dell’esecutivo. In questo modo i democratici hanno finito per sdraiarsi ai piedi di Conte, che da un anno governa a colpi di Dpcm senza che il Pd abbia mosso un dito, abbia fatto una proposta o abbia sollevato una parvenza di dibattito interno. Tutti allineati e coperti a difesa dell’avvocato del popolo, unico baluardo all’avanzata dei sovranisti.



La testardaggine di Conte e del Pd li ha mandati a fondo. Il presidente Mattarella ha lasciato loro tutto il tempo necessario per rinsavire e ricostruire il rapporto con Renzi. Quando non è stato più possibile aspettare, è scoccata l’ora di Mario Draghi. Ed è successo l’imprevedibile (per loro), cioè che Matteo Salvini ha aperto la porta all’ex presidente della Bce. Quella annunciata dal leader leghista è una svolta che somiglia molto al dietrofront di Renzi del 2019: un anno prima aveva detto no al patto con il M5s, ma dopo il Papeete è tornato sui suoi passi. Nei giorni scorsi molti, tranne IlSussidiario, avevano scommesso che la Lega non avrebbe mai dato via libera all’uomo della finanza europea. Invece Salvini ha spiazzato tutti: il Pd, i grillini, la Confindustria che si era improvvisamente – e improvvidamente – schierata a difesa del ministro Roberto Gualtieri.



La decisione di appoggiare Draghi riporta la Lega al centro dello schieramento politico, non “regala” uno come Draghi all’asse Pd-M5s e nemmeno al solo Silvio Berlusconi. Meglio scendere in campo per gestire almeno in parte i 209 miliardi del Recovery Fund piuttosto che starsene alla finestra a contare quanti pongono il veto contrario. Meglio dare ascolto al tessuto produttivo del Nord, che non attende altro che le risorse per ripartire e vede in Draghi uno che finalmente può farle arrivare.

L’incarico a Draghi non è teso a evitare il voto per tenere lontano il centrodestra dal governo, come credevano i giallorossi. È fatto per coinvolgere tutti nella grande ricostruzione. Berlusconi, e ora Salvini, l’hanno capito. E di colpo, verso di loro cadono veti e pregiudizi. Non sono più i nemici dell’Italia e dell’Europa. Con grande pragmatismo, ora Mattarella e Draghi li hanno rimessi in campo, in prima fila, mentre se ne stavano in panchina, in attesa di un voto anticipato che non sarebbe arrivato. E dietro le quinte sto giro ci è finito il Pd.

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