La crisi organica di gramsciana definizione, ossia la perdita di egemonia delle classi dirigenti attraverso la disgregazione dei partiti politici che si trasformano in gruppi instabili senza radici territoriali ed esposti quindi alle pressioni estere e delle lobbies più varie, non cessa di dilaniare la Patria per il solo fatto che Mario Draghi ha accettato l’incarico di formare un nuovo Governo. Questo atto non implica di per sé che la crisi organica possa risolversi. Essa assume ora le tinte del cesarismo, ossia quel fenomeno che ispirò il Marx de Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte e che già era descritto magnificamente nei testi di Proudhon. In particolare nelle opere Idée générale de la révolution au XIXe siècle e in Révolution sociale démontrée par le coup d’État, entrambi frutto delle riflessioni elaborate all’indomani del colpo di Stato di Luigi Napoleone.



Anche la nomina di Draghi, infatti, non promana dal voto popolare, ma è un nuovo “coup d’état” simile a quello che io descrissi nel mio libro L’inverno di Monti. Simile cioè a quello che portò al Governo una persona non eletta dal popolo, pur se in un contesto molto meno drammatico di quello di oggi. Di nuovo la nomina da parte del Presidente di una Repubblica parlamentare di una persona non eletta al Parlamento e che ha il compito di allontanare il “Comitato Conte” incapace di portare a termine la risposta che esigono sia l’Ue e la centralizzazione capitalistica franco-tedesca, sia gli Usa che mediano con gli interessi di non far cadere l’Ue sotto il dominio tedesco-cinese e di continuare la lotta contro la deflazione secolare, così come fece Draghi nel suo incarico alla Bce.



Questa nomina dall’alto ripropone la categoria interpretativa di “cesarismo”: uno dei due poli della concezione teleologica “dilemmatica” di Proudhon, vedendovi cioè la sola alternativa al non governo e all’anarchia, nonché l’unica possibilità di produzione di una situazione che per Proudhon poteva essere rivoluzionaria e che per noi italiani oggi è di salvezza nazionale, di ultima spiaggia dinanzi all’ignavia del “Comitato Conte” e del suo “giglio magico”. La soluzione è già inscritta nelle maggioranze parlamentari possibili: se la Lega voterà a favore, la maggioranza per Draghi è praticamente certa in ogni caso, anche senza l’appoggio del M5s: il nuovo Governo avrebbe almeno 199 voti favorevoli (su 315) al Senato e 400 (su 630) alla Camera.



A questo punto, i numeri sulla carta ci sarebbero, ma entrerebbe in gioco un’altra variabile: ossia la (eventuale) indisponibilità dello stesso Draghi a guidare un esecutivo che non abbia una maggioranza parlamentare solida. Ecco perché, qualunque cosa decida di fare la Lega, diventa decisivo anche capire quale sarà l’orientamento – anche solo prevalente – dei gruppi parlamentari del Movimento 5 Stelle.

Tutto è nelle mani del solo partito che è sinora uscito indenne dalla crisi organica: la Lega, che rimane ancora oggi il “partito dei produttori”, con una base territoriale che non è solo più saldamente insediata del centro-nord e nell’Italia di mezzo delle imprese piccole e medie, artigiane. Esse sono l’ultima grande risorsa dell’Italia con il pugno di grandi imprese ancora partecipate dallo Stato e sane e destinate a un ruolo propulsore diverso dall’attuale se vogliono sopravvivere e svilupparsi. Le forze della borghesia nazionale rimasta hanno un compito fondamentale e drammatico. Non debbono compiere l’errore della Confindustria e non cogliere l’intelligente richiamo di Draghi al modello Ciampi di concertazione con le parti sociali dal nuovo presidente incaricato giustamente invocato.

Se si deve cooperare non si possono lanciare anatemi o porre condizioni divisive prima di incontrarsi. Questo è lo spirito con cui Mario Draghi inizia la sua opera. Mario Draghi è più un abile politico che un tecnico di limitate vedute: è su questa strada che bisogna incoraggiare la formazione di un Governo dalla solida base parlamentare e destinato a durare. Se così non si farà sarà la fine.

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