La situazione è singolare nella sua semplicità. Abbiamo una pandemia che può avere effetti letali e che – elemento decisivo – si trasmette attraverso il contatto tra le persone. Per quanto la maggior parte dei contagiati non presenti sintomi e il ricovero in terapia intensiva concerna solo pochi casi, questi ultimi, specialmente se si sommano con altre patologie, possono essere gravi ed avere esiti mortali. Dopo la prima ondata nei mesi di febbraio/aprile, che ha avuto effetti devastanti, se ne teme una seconda.



Eppure non mancherebbero le ragioni per mitigare il timore di una nuova ondata. Come è noto il numero dei contagiati è in crescita, ma solo una parte minima dei casi accertati ha reso necessario il ricovero in ospedale: su 5.901 contagiati rilevati nella giornata del 13 ottobre solo il 4,3% è stato ricoverato (255 casi) e solo l’1,05% è stato messo in terapia intensiva (62 casi). Ora se il numero dei contagiati è apparentemente vicino ai 5.974 del 28 marzo (una delle tante date di riferimento della bufera di primavera) nulla, ma proprio nulla, ci riporta (fortunatamente) ai mesti dati dei primi mesi di quest’anno: i contagiati del 28 marzo costituivano infatti il risultato di soli 35.447 tamponi effettuati, tre volte meno rispetto ai 112.544 eseguiti il 13 ottobre.



Per di più l’analogia con il 28 marzo perde ogni senso se si guarda alla percentuale dei ricoverati (a quella data erano il 38,07% dei contagiati) ed a quella dei ricoverati in terapia intensiva (all’epoca il 5,5%). In pratica oggi non solo la percentuale dei contagiati è molto più bassa rispetto ai tamponi effettuati, ma anche quella dei ricoverati lo è: visto che dal 38% del 28 marzo si è scesi al 4,3% del 13 ottobre. Gli stessi decessi sono, grazie a Dio, in caduta libera: da 889 si è scesi a 41.

Ovviamente ogni raffronto lineare tra tamponi, ospedalizzati e pazienti in terapia intensiva non è risolutivo in quanto non è detto che pazienti ospedalizzati e in terapia intensiva provengano dal macro-insieme dei tamponi effettuati nello stesso giorno (ed è per questo che tutte le percentuali si muovono in chiave diacronica, prendendo in riferimento il giorno precedente e non facendo nessun collegamento sincronico). Ciò nonostante la lettura sincronica non è priva di una sua credibilità e soprattutto spiega il numero assolutamente circoscritto di decessi.



Elencare queste cifre in modo corretto, senza nascondere nulla ma senza nemmeno enfatizzare il mostro, spiegano qualcosa di molto semplice: le nostre équipe sanitarie stanno lavorando al meglio e, se il virus (forse) non è cambiato, sono certamente più efficaci tanto i protocolli di intervento quanto le terapie individuate.

Se da un lato vanno adottate delle misure di sicurezza in quanto un aumento vertiginoso dei contagiati, aumentando comunque il numero dei ricoverati, non garantirebbe probabilmente lo stesso successo, tuttavia si è ben lontani da una supposta “nuova ondata” di dimensioni analoghe alla precedente.

Eppure è proprio il contrario che viene presentato. Le cifre vengono snocciolate senza le percentuali; si dichiara il numero dei decessi come se fosse significativo in sé, senza fare confronti e si ripete che “non bisogna abbassare la guardia”. È evidente che dietro l’informazione ossessiva che sta imperversando su tutte le reti televisive e che martella impunemente le case dei nostri anziani (sempre più spaventati) c’è la volontà di evitare la diffusione di atteggiamenti irresponsabili ricorrendo allo strumento più immediato e tradizionale che c’è: la paura.

Ora, anche senza entrare in merito agli effetti deleteri di una simile strategia, ci sono almeno tre argomenti che impongono una seria riflessione.

Il primo è quello della credibilità istituzionale. L’istituzione, qualunque sia il suo colore politico, deve sempre mirare a conservare la sua autorevolezza e quindi deve sempre dare prova di specchiata competenza. La pretesa di mantenere la “distanza sociale” (un termine che è già un naufragio concettuale in quanto si tratta semplicemente di “distanza fisica”) è semplicemente irrealizzabile sui mezzi pubblici, sulle banchine ferroviarie e nelle stazioni della metropolitana. I milioni di pendolari, aspettando nelle stazioni e viaggiando su treni, autobus e metropolitane, passano complessivamente molte più ore senza la “distanza sociale” di quanto non lo facciano le centinaia di migliaia di giovani nelle tanto aberrate “movide” (utilissime, tra l’altro, per i posti di lavoro che creano). Nulla di peggio che far rullare i tamburi su di un provvedimento irrealizzabile: ci si rimette in credibilità.

Il secondo è un problema di efficacia strutturale. Quando si è alla guida di un apparato sanitario logorato da anni di tagli e di sistematica distruzione dei presidi sanitari sul territorio – un apparato che non è nemmeno in condizione di assicurare un contatto con chi, confinato in casa, chiede all’Asl cosa fare, trovando un muro di silenzi – visto che il personale è al collasso (proprio come quello della scuola) ci si attendono rinforzi consistenti, anche con il ricorso a contratti a termine. Correre dietro alle movide e multare le mascherine non indossate correttamente non è solo l’espressione mesta di un potere confuso, ma diventa un segnale di miopia nel momento in cui chi decide non vede la catastrofe (quella vera) che si sta presentando con i primi freddi invernali: l’influenza infatti è alla porte ed i vaccini, dei quali non si parla, sono più essenziali della “distanza sociale”.

Il terzo è un problema di rispetto delle vite private, ma anche della vita sociale (quest’ultima sì che è “sociale” e non la “distanza”). La facilità con la quale vengono varati alla leggera provvedimenti abnormi, tanto più ridicoli quanto più si sta gonfiando scientemente un problema già grave di suo, traduce la percezione di una leadership convinta di poter comprimere l’esistenza di tutti come se questa fosse un bene a geometria variabile, un ambito di vita la cui limitazione possa essere esercitata a piacere e non presenti che costi banali e superficiali. Così dal divieto dei funerali, multando il sacerdote che officiava un rito funebre con quindici presenti, alla chiusura dei laboratori universitari (dove spesso non si è in più di quattro o cinque persone) ed alla visita limitata ai “congiunti” si è passati alle cene familiari contingentate.

Probabilmente questo diktat come tanti altri resterà inapplicato e l’indifferenza nei confronti del Palazzo continuerà a crescere. Per quanto non sia certo la via della defezione e dell’indifferenza la strada da percorrere, è proprio quella sulla quale enfatizzazioni fuori misura e risoluzioni “creative” ci stanno avviando.

Si opera così in una direzione obliqua rispetto alla realtà, dando vita ad una distorsione sistematica del problema attraverso un’irresponsabile spettacolarizzazione di quest’ultimo.

Probabilmente è la logica stessa del Dpcm, la sua redazione “in solitaria” e l’abolizione del dibattito parlamentare, che poi vuol dire l’esautorazione del potere legislativo, a costituire il problema centrale. I problemi permanenti del Paese sono stati messi in quarantena, il Covid, opportunamente enfatizzato, è chiamato ad occupare tutto lo spazio possibile. Così, un’emergenza recente non fa che stendere un velo su quelle precedenti, come se fossero state risolte o si avviassero ad esserlo. Sarebbe interessante sapere cosa l’attuale compagine di governo vuole fare su tutti i problemi sul tappeto rimasti irrisolti: dal costo del lavoro al dissesto del territorio ed alle aree terremotate, dalle infrastrutture che stanno ancora attendendo al rilancio della nostra economia da troppo tempo in ristagno cronico. Ma su tutto questo si percepisce un sostanziale silenzio.

È una strategia eccellente fingere di governare un Paese, quando in realtà si sta solamente fronteggiando un’emergenza, costantemente e sapientemente rilanciata sulla scena mediatica.