È finalmente arrivato il decreto rilancio. E di rilancio il Paese ha proprio bisogno. Da molte settimane oramai. Doveva essere il decreto aprile, poi maggio, ma visto che anche questo mese stava per terminare, si è preferito evitare ogni riferimento temporale. Sennonché il decreto è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il giorno in cui si è votato per due mozioni di sfiducia al ministro della Giustizia.
I lunghi tempi di approvazione del decreto e la sfiducia a Bonafede potrebbero sembrare due fatti estranei, ma al contrario sono strettamente connessi. Descrivono infatti la forte instabilità politica che anche questa volta danneggia il nostro Paese. È vero che le mozioni sono state proposte dalle opposizioni, ma fino al momento del voto erano sostenute nel merito da una delle forze di maggioranza.
Un’instabilità, o meglio una debolezza della maggioranza di governo, che trova conferma nelle misure immaginate per il rilancio. La prima impressione, infatti, è che troppe risorse siano più destinate a sussidi per accontentare singole parti, piuttosto che a sostenere l’interesse generale degli investimenti: vero motore per il rilancio dell’economia.
Una logica di ripartizione delle risorse simile a quella che guida la composizione delle leggi di bilancio ordinarie, ma ancora più negativa in un momento di così grave crisi. E proprio la difficoltà di mettere tutti d’accordo ha dilatato eccessivamente i tempi di misure e risorse indispensabili per il Paese.
Questi fatti però sembrano mostrare la debolezza di un governo che, al contrario, dovrebbe avere un ruolo molto più deciso ed efficiente nell’emergenza.
Da più parti in questi mesi si è accusato il Governo Conte di eccessivi poteri, talvolta di autoritarismo. Al contrario, invece, superate le prime settimane, il dibattito intorno alla seconda fase ha descritto un’assai dannosa debolezza dell’Esecutivo. Una debolezza derivante dalla disomogeneità delle forze politiche che sostengono la maggioranza. I differenti (e talvolta opposti) programmi politici dei 5 Stelle, del Pd, di Leu, cui si è aggiunto il partito di Renzi, sono nella crisi ancora più evidenti. In un momento in cui, al contrario, sarebbe indispensabile l’unità nell’indicare al Paese la via di uscita.
Tutti i giuristi conoscono la celebre formula tratta dalla Teologia politica di Carl Schmitt: “Sovrano è chi decide sullo stato di eccezione”. Ma quali sono le conseguenze se in uno stato di eccezione, di gravissima emergenza, la decisione tarda o non è chiara? Lo abbiamo visto in questi mesi. Non è solo il ritardo con cui sono state adottate alcune delle misure indispensabili per la ripresa. Ma anche di quelle annunciate e mai arrivate. Gli esempi purtroppo non sono pochi, basti ricordare quelle più clamorose: dall’applicazione di contact tracing alla mancata distribuzione dei prodotti di protezione individuale, oltre all’assenza di un razionale coordinamento dei tamponi e dei test sierologici. Si è delegato a commissioni di tecnici, ma altresì alle Regioni, spesso senza risposte o creando situazioni di conflitto.
Insomma, pare evidente come anche la gestione dell’emergenza soffra di tutte le anomalie della nostra forma di governo che – con varie oscillazioni – da sempre rallentano lo sviluppo del Paese. I problemi sono noti, ma non sempre adeguatamente enfatizzati. Due Camere con le stesse funzioni ed estremamente frammentate nella loro composizione da leggi elettorali eccessivamente proporzionali. Che significa tempi di approvazione delle leggi troppo lunghi e governi eccessivamente brevi e instabili. È questo il vero male del nostro Paese, da sempre. La crisi lo sta ulteriormente mettendo in evidenza. Unica via d’uscita: le riforme istituzionali. Presto ne dovremo riparlare.