Un “guardasigilli dimezzato”, ha scritto Repubblica per sintetizzare la situazione di Carlo Nordio, ministro della Giustizia che si allontana sempre più dal gradimento della premier Giorgia Meloni. Le divergenze erano apparse chiare già quando Nordio – che è un magistrato in pensione – assieme a Forza Italia aveva proposto di istituire una commissione parlamentare d’inchiesta sul caso del dossieraggio mentre la presidente del Consiglio ha tagliato corto, lasciando carta bianca alla Commissione parlamentare Antimafia (guidata dalla fedelissima Chiara Colosimo) che già aveva avviato le audizioni. Qualche giorno fa lo stesso Nordio, parlando nel Palazzo di giustizia di Roma, ha ammesso pubblicamente che “le risorse” per la giustizia “sono limitate perché vi è scarsa attenzione finanziaria” in quanto il suo ministero, quello di via Arenula, “è importante nella forma e non gradito nella sostanza”. Cioè, non porta voti e magari si attira pure qualche critica anche dagli stessi colleghi di governo. Sono le classiche verità che non vanno mai dette.
Ora il governo ha deciso di accelerare sulla riforma della magistratura, non solo separando le carriere delle toghe inquirenti e di quelle giudicanti, ma anche dividendo il Csm, appunto uno per i pm e l’altro per i giudici. La spiegazione che ne hanno dato le opposizioni parlamentari (e gli stessi magistrati) è che così la Meloni, alla vigilia della campagna elettorale per le europee, riesce ad assegnare a ogni partito della maggioranza la sua bella fetta di riforme da spendere presso il rispettivo elettorato: a Fratelli d’Italia il premierato, a Forza Italia la separazione delle carriere (vecchio pallino di Silvio Berlusconi) e alla Lega il regionalismo e ora anche il dimezzamento del Csm.
Per Nordio è un commissariamento di fatto. Il ministro, conoscendo bene la categoria di cui è stato parte attiva per decenni, ha sempre proceduto con i piedi di piombo quando si parlava di riforme. Ora però la Meloni sembra avere rotto gli indugi. I ventriloqui di Palazzo Chigi fanno sapere che il guardasigilli è considerato “uno che di politica non sa nulla e si muove come un elefante in cristalleria”. Di sicuro Nordio non è mai stato un politico, anzi da magistrato spesso è andato in direzione “politicamente scorretta”, per esempio quando scoperchiò il sistema delle coop rosse in Veneto mentre nel resto d’Italia si indagava solo su Dc e Psi; è fuori dai giochi di partito e forse anche a fine carriera. In ogni caso, a Palazzo Chigi dovrebbero fare attenzione a bollare il guardasigilli come “uno che non sa nulla di politica” dopo che appena due anni fa la Meloni ne aveva fatto il proprio candidato al Quirinale.
Il dissidio ora è reale. Nordio conosce la forza della casta giudiziaria e sa che una riforma cruciale e difficilissima come quella che vuole fare il governo dev’essere negoziata con le toghe e poi parlamentarizzata, cioè ampiamente discussa tra le forze politiche; non va imposta dall’alto per decreto o decretino: basta ripassare il libro dell’ex magistrato Luca Palamara Il sistema per averne coscienza. Se invece si preferisce promettere le riforme, sbandierarle in campagna elettorale, mancare l’obiettivo e poi rinfacciare al resto del mondo di averle fatte fallire, allora si può seguire una strada diversa, quella dello scontro con gli altri poteri istituzionali, a cominciare da quello che si vuole “riformare”, diciamo pure ricondurre nei limiti previsti dalla Costituzione per il potere giudiziario. Giorgia Meloni ha promesso molto, agli elettori e agli alleati, ma in un anno e mezzo di governo sulla giustizia è riuscita a fare ben poco. Il centrodestra è stato sovraccaricato di riforme estremamente impegnative da realizzare perché toccano tanti equilibri e tanti poteri, compreso il sistema delle garanzie. Rimpiazzare Nordio con qualcun altro, magari un fautore della via più “breve”, potrebbe essere una tentazione facile, ma non è detto che sia candidata a funzionare.
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