Giustizia, riaperture, riforme. Il governo di unità nazionale guidato da Mario Draghi, impegnato a far ripartire il paese con una campagna vaccinale più accelerata e a modernizzarlo mettendo mano a importanti progetti di riordino per non perdere la cospicua dote di miliardi messa a disposizione dall’Unione Europea con il Recovery fund, comincia a fare i conti con la litigiosità della sua maggioranza ampia e composita, a partire dalle fibrillazioni continue fra Partito democratico e Lega. A complicare il quadro, poi, c’è il “caso Amara”, che ha riportato alla ribalta la crisi in cui è caduta la credibilità della macchina giudiziaria e del suo organo di autogoverno, il Csm, tanto da spingere Matteo Salvini a chiedere un referendum sulla riforma della giustizia. Queste fibrillazioni possono mettere un bastone tra le ruote lungo il cammino del governo Draghi? Lo abbiamo chiesto a Sabino Cassese, presidente emerito della Corte costituzionale.
Il governo di unità nazionale guidato da Mario Draghi da tempo è attraversato da fibrillazioni interne. A chi conviene questo stato di stress?
Bisogna distinguere. Quelle che lei chiama fibrillazioni fanno parte della politica gladiatoria, che serve alla parte teatrale dello spazio pubblico, fanno parte della ricerca di identità da parte di politici con carenza di cervello. La sostanza è invece costituita da due elementi.
Quali?
Primo: Draghi e il suo governo hanno un “certificato di credibilità”. Godono della fiducia dei larghi “condomini” di cui facciamo parte, dall’Organizzazione mondiale del commercio all’Unione Europea.
E il secondo?
Il governo Draghi, con l’eccezione di qualche ministro troppo loquace, sta dimostrando di saper fare molti fatti con poche parole, mentre altri usavano molte parole per coprire i pochi fatti.
Le fibrillazioni però sono evidenti, non crede?
Quelle che lei chiama fibrillazioni non sono tensioni reali, ma posizioni che riempiono un vuoto di programmi e che derivano in parte dalla fluidità dell’elettorato e dal bisogno di contarsi. Mi riferisco a politici che hanno bisogno di un’antagonista per caratterizzarsi, non riuscendo a farlo da soli perché manca loro un indirizzo. Quindi, hanno bisogno di mostrare i muscoli. Pensi ai cosiddetti politici che si guardano bene dall’indicare obiettivi, dall’esporre idee, dal fare proposte e parlano soltanto di collocazioni, alleanze, posizionamenti, operazioni. Senza saper andare al di là di espressioni elementari come “accorciare le distanze tra chi sta sotto e chi sta sopra”, un modo rudimentale per esporre progetti politici.
Secondo lei, c’è chi non “accetta” Draghi?
Il governo Draghi è in parte frutto di uno stato di necessità sentito dal Paese e dalle forze politiche. Ha anch’esso i suoi nei.
Per esempio?
Ha prorogato lo stato di emergenza per continuare a vivere di norme derogatorie, invece di modificare quelle ordinarie. Al suo interno vi sono pressioni per la sistemazione in ruolo di supplenti: anche se essi venissero accuratamente esaminati, la “titolarizzazione” violerebbe comunque il principio dell’eguale accesso di tutti ai posti pubblici.
Nel governo si fronteggiano due idee diametralmente opposte su come gestire questa fase. Draghi saprà mediare tra queste posizioni senza farsi logorare?
Le idee opposte fanno parte della politica di teatro, non di quella che si svolge dietro le quinte dove, da un lato, c’è molta maggiore unità e, dall’altro, vi sono frammentazioni lungo fratture diverse, dominate da interessi di categoria.
Lei ha recentemente denunciato “l’inerzia che paralizza il paese”, bloccato da “forze interessate alla conservazione”. Draghi si è impegnato a varare riforme strutturali – dalla giustizia alla pubblica amministrazione – che l’Italia attende da decenni. Dovrà fare i conti con questi poteri d’interdizione? E questi poteri potrebbero trovare sponde politiche?
Le resistenze e l’esercizio del potere di interdizione derivano da tre fattori. Innanzitutto, quello ideologico: ad esempio, l’ideologia secondo la quale l’Italia sarebbe un paese di corrotti, che richiede un atteggiamento giustizialista. In secondo luogo, quello di corpi dello Stato che non vogliono rinunciare ai propri poteri di cogestione, ad esempio la Corte dei conti. In terzo luogo, gli interessi di categoria, ad esempio quelli sindacali che rifiutano la cogestione a livello locale, ma vogliono assicurarsi quella a livello nazionale.
Intanto la giustizia si trova ancora nella bufera per il caso Amara. È venuto il momento in cui, dopo trent’anni in cui si è preconizzato il contrario, toccherà alla politica rifondare la giustizia? Ci riuscirà la riforma delineata nel Pnrr dalla ministra Cartabia?
La crisi della giustizia richiede numerosi interventi, non tutti dipendenti dal corpo politico. Innanzitutto, richiede una capacità del corpo stesso dei magistrati di porre rimedio alla lentezza dei giudizi, porre limiti all’azione delle procure, porre barriere all’occupazione di posti del potere esecutivo da parte di magistrati, disporre regole per il buon funzionamento del Consiglio superiore della magistratura. Su molti di questi aspetti è il corpo stesso dei magistrati che dovrebbe provvedere. Per altri, serve il Parlamento che deve modificare alcune leggi, e il ministero della Giustizia che deve assicurare, secondo la Costituzione, il funzionamento della giustizia.
Molti osservatori hanno notato il silenzio del presidente Mattarella. Perché il Capo dello Stato non interviene a dirimere il caos del Csm?
Anche i silenzi hanno un significato.
(Marco Biscella)
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