I 156 voti al Senato non garantiscono Conte e il suo governo. Tra assenze e defezioni da computare non c’è abbastanza margine per la tenuta dell’esecutivo. Lo sanno bene il presidente del Consiglio e il suo consigliere-navigatore Goffredo Bettini (Pd), che ha indicato la rotta per uscire dalla crisi. Che però resta, nella sua attuale pesantezza. E non bastano, per superarla, gli appelli di Conte alla responsabilità: al consolidamento della maggioranza con l’attesa aggiunta della “quarta gamba”, immaginata nel solco di un moderatismo europeista utile alla causa, anche del Recovery.



Stavolta Renzi ha giocato alla Kasparov nella celebre rimonta su Karpov: ha sferrato un attacco difficilissimo da parare. Vediamone i motivi. Mercoledì prossimo si voterà a Palazzo Madama sulla relazione del ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, cui Italia viva è contraria e che non ha il gradimento pieno della maggioranza, la quale potrebbe quindi assottigliarsi ulteriormente: Sandra Lonardo in Mastella difficilmente potrebbe votarla.



Inoltre, e non solo tra i “costruttori”, crescono le aspettative individuali sul rimpasto di governo, che sacrificherebbe i 5 Stelle ormai rinunciatari, preoccupati di arrivare a fine legislatura e mantenere posto e indennità (con i diffusi inadempimenti nelle restituzioni).

Renzi ha visto lungo e calcolato tempi e modi del logoramento dei contiani, che potrebbe comportare la fine del contismo, almeno nella versione amplificata by Rocco Casalino. L’ex concorrente del Grande Fratello ha costruito l’immagine di un presidente amato dal popolo per la gestione della pandemia. L’aveva sovraesposto nell’incedere drammatico della prima ondata, al punto da orientare l’attenzione popolare sulle restrizioni del lockdown e spedire nella penombra le questioni, le difficoltà sanitarie ed economiche, emerse come un iceberg soltanto dopo.



Perciò i pentastellati si affidano a Conte. Non hanno alternativa perché il reggente Vito Crimi ha esercitato un ruolo soltanto formale; perché Luigi Di Maio ha ricuperato il suo profilo governista e perché Alessandro Di Battista è fuori della scena, sicché il suo carisma è ridotto alla nostalgia e alla memoria del tempo perduto. Ai parlamentari del Movimento 5 stelle rimane l’attesa spasmodica delle comunicazioni in remoto del ministro Stefano Patuanelli, delegato ad aggiornarli sulla progressione del pallottoliere. E stanno fermi a scongiurare il peggio, con sale, corni, amuleti e altri oggetti apotropaici.

Del resto la vittoria delle politiche del 2018 non è valsa ai 5 Stelle. Proprio l’ex dem Ettore Rosato, oggi coordinatore nazionale di Italia viva, con la “sua” legge elettorale riuscì a portarli sotto il giogo delle alleanze parlamentari. Ironia della sorte, quella mossa, sparita dal ricordo collettivo, è servita a trasformare l’originario motto grillino “da soli” nel più pragmatico “insieme agli altri” (“sovranisti”, “responsabili”, “costruttori”, scudocrociati e così via).

Se il Pd, come ha osservato Massimo Cacciari, latita e attende Godot pur essendo la crisi del suo governo, il Movimento 5 Stelle aspetta alla finestra, tace e passa la mano. Non potrebbe agire altrimenti, perché, come ha confermato il voto sulla riforma del Mes, ha un’identità politica liquida, fatta anche di ambientalismo residuale e transizione ecologica.

Soprattutto, i pentastellati risentono della frustrazione e dello scoramento determinati dai criteri interni, non proprio meritocratici, di selezione dei capigruppo e presidenti delle commissioni. E allora confidano nella voce del silenzio, nella fucina politica di Conte, nella pazienza del presidente Sergio Mattarella. Nella paura generale, comprensibilissima, del ritorno alle urne.