Renzi sa perfettamente di essere antipatico alla stragrande maggioranza degli elettori del centro-sinistra, così come sa di non aver conquistato quelli di centro-destra, che hanno preferito in questi anni seguire leader più sanguigni come Salvini e la Meloni.
Questa considerazione di partenza spiega abbastanza bene perché il suo partito è inchiodato ad una percentuale sotto il 3%, e perché si sia ritagliato per sé il ruolo di rompiscatole. Soprattuto ora, che ha praticamente la certezza che non si andrà al voto, con buona pace di quanto sostiene Bettini. E soprattutto dopo aver bloccato in parlamento – per palese insipienza del Pd, e quindi dello stesso Bettini – la nuova legge elettorale, quella che prevedeva un passaggio definitivo al proporzionale con un sbarramento al 5%. Con cui Italia Viva non avrebbe portato a casa un solo eletto.
Il Pd sembra colto ancora una volta di sorpresa dall’iniziativa del suo ex segretario e non riesce a capire se da questa nuova “mossa del cavallo” può trarre un vantaggio o incappare in insidie pericolose.
La parte del gruppo dirigente che fa capo ad Orlando e Marcucci – che chiameremo per comodità i “rimpastai” – si sfregano le mani e suggeriscono di mettersi in scia del senatore di Rignano. Franceschini e Zingaretti e i loro più stretti collaboratori – che invece chiameremo i “temporeggiatori” – continuano ad essere più realisti del re, prudenti fino alla noia e preoccupati della reazione di Mattarella che potrebbe in ogni caso dichiarare conclusi i giochi e mandare tutti a casa. Infine vi sono quelli che con un rimpasto si sentono già ex-ministri – i “rimpastati” – e sono pronti a far saltare i vecchi equilibri che sono alla base dell’attuale maggioranza che governa il partito.
Renzi quando tenta un azzardo riesce sempre a cogliere una verità, e quando agisce con la velocità della volpe, mette gli altri di fronte a fatti compiuti. In quest’ultimo mese Conte ha visto assottigliarsi il proprio consenso, pagando il ritardo accumulato nei mesi estivi e la mancanza di disponibilità politica al dialogo. Renzi lo ha capito subito e senza finzioni dice quello che pensano molti, non teme di assumersi la responsabilità della rottura. Conte ha sbagliato a sottovalutarlo sfidandolo. Renzi ora non si fermerà fino a quando non umilierà la sua preda. O Conte cederà il passo ad un nuovo premier, uscendo di scena, o capitolerà rinunziando a quanto ha proposto in materia di Recovery Plan, di nomine, di servizi segreti, di collegialità. Con il Pd che resterà a guardare.
Come sappiamo Renzi non è un campione di coerenza. Gran parte degli addebiti nei suoi confronti riguardano quasi esclusivamente la facilità con cui si è rimangiato proclami e impegni d’onore. Su tutti, la famosa promessa “se perdo il referendum lascio la politica”, che lo perseguiterà a vita. Ma non era mai arrivato a tanto come in queste ore, attaccando il premier perché avrebbe trasformato Palazzo Chigi in una propria roccaforte. Proprio lui, verrebbe da dire, che ha imposto toscani ovunque a cominciare dalla famigerata nomina della comandante dei vigili urbani di Firenze a capo dell’ufficio legislativo. Lui, che voleva piazzare il suo sodale Carrai a capo di una struttura di controllo dei servizi. Renzi sa bene di essere in plateale contraddizione con se stesso, ma risolve tutto rigirando la frittata: “cari signori, avete votato contro il mio referendum? E ora beccatevi questo”. Chissà per quanto tempo ancora dovremo sentirci questa solfa prima che un vero statista metta fine a queste pagliacciate.