La buona novella dell’imminente riacquisto di una (certa) libertà di movimento che il presidente della Regione Campania sta provvedendo a formalizzare in un’ordinanza e che è stata anticipata da una comunicazione social del sindaco di Benevento, induce a un moto di entusiasmo l’intera comunità regionale. Tanto, non scandisce la fine dell’emergenza sanitaria, ma di certo l’avvia su un percorso gestionale di maggiore ordinarietà in cui – si può dire, finalmente – si restituisce alla persona la propria dignità di essere libero.
Sulla conformità alla Carta costituzionale degli atti di gestione di tale emergenza si è già detto tanto. Non può però passare inosservato il forte personalismo che sta marcando l’azione dei vari presidenti di Regione (organi monocratici) espresso, tra l’altro, attraverso una comunicazione pressoché permanente, a volte con toni polemici, altre volte veemente nel rimarcare alcuni divieti per la collettività, come anche attraverso il ricorso regolare al potere di ordinanza, potere che, per caratteristiche giuridiche intrinseche, si connette a situazioni di emergenza e perciò sfugge a un controllo politico-istituzionale (non, ovviamente, a quello giurisdizionale).
Viene da chiedersi se e quanto questo modo di procedere sia la fisiologica conseguenza di un agire democratico nel contesto di una forma di governo regionale “del presidente”, eletto a suffragio universale e diretto.
Preliminarmente, è bene ricordare che l’assetto organizzativo democratico realizza, tra l’altro, una “forma di razionalizzazione del processo politico”, esaltato soprattutto dal pluralismo eterogeneo degli apporti comunicativi, destinato anche a trovare una forma giuridica di protezione nei cosiddetti diritti delle minoranze (iniziativa, discussione, emendamenti eccetera), oltre che nella garanzia delle libertà fondamentali, a partire dalla libertà di manifestazione del pensiero. Tanto, al fine di rendere partecipata e non arbitraria la decisione finale.
Pertanto, all’obiezione che la forma di governo regionale è incardinata, per autonoma scelta dello stesso Consiglio regionale (articolo 123 della Costituzione), sull’investitura diretta del suo presidente, la cui legittimazione in senso politico si fonda, in ultima analisi, sulla volontà popolare, potrebbe replicarsi che l’espressione del voto non basta da sola a giustificare un marcato personalismo nell’esercizio dell’azione politica, altrimenti non dovremmo dubitare – ad esempio – della natura democratica del potere attribuito con voto parlamentare al presidente ungherese Orbán dei cosiddetti pieni poteri per la gestione dell’emergenza sanitaria, poteri che gli consentiranno di abrogare leggi vigenti e paralizzare le elezioni per tutto il tempo di durata dell’emergenza.
È evidente che la democrazia richiede appunto il radicamento, giuridico (e culturale), di quelle soluzioni organizzative che valgono a qualificarla come forma razionale di decisione politica, a cominciare dall’effettivo esercizio delle cosiddette libertà funzionali, insieme alla possibilità del confronto e del controllo politico, sia all’interno che all’esterno dell’istituzione.
L’investitura popolare diretta di un potere monocratico (ad esempio, l’elezione del presidente degli Stati Uniti) nutre, tanto più nell’epoca contemporanea della comunicazione per immagine e per voce, e inevitabilmente incoraggia un culto della personalità che, nelle intenzioni, vale a rafforzare il vincolo di immedesimazione piena tra il potere stesso e la comunità sociale. Tale culto si proietta, poi, sulle modalità di esercizio del potere stesso, che cela sempre in sé un retroterra comunicativo.
In definitiva, l’elezione diretta incoraggia l’artificio ideologico della democrazia identitaria, la quale costruisce un’apparenza come elemento essenziale della stessa strategia di comunicazione.
Ma la finzione della volontà unica e assolutamente unitaria (ben diversa dalla prospettazione dell’unità politica come esito delle dinamiche democratiche), spesso prefigurata come il risultato virtuoso dell’identità di governanti e governati, non si addice e, anzi, confligge con la democrazia costituzionale di impronta liberale quale è definita anche nella Costituzione del 1948. La sua pervicace affermazione, nonché il presunto suo riflettersi nell’operato di un organo monocratico eletto a suffragio universale e diretto, disvela, in ultima analisi, i tratti ideologici di una democrazia che è solo apparente, in quanto incardinata su una falsa premessa.
Tale finzione, a ben vedere, nasconde frammenti di un personalismo politico poco avvezzo a declinazioni democratiche, che volentieri tende a demonizzare le minoranze politiche o ad eludere il confronto con le stesse, meno ancora con frazioni discordi della comunicazione politica.
Tracce di questa scarsa accondiscendenza al confronto democratico è, si è detto, il ricorso ordinario al potere di ordinanza presidenziale (o sindacale) nell’adozione delle misure emergenziali anche quando i suoi fondamenti di legittimità si mostrano, di volta in volta, tutt’altro che scontati e certi; come, parimenti, sintomatico in tal senso è anche il marchio di una comunicazione veemente, a volte politicamente sprezzante, ritenuta utile, tuttavia, al mito della democrazia apparente e della matrice identitaria che la sorregge.
Ma ci viene ricordato, da autorevole voce dottrinale, che lo Stato costituzionale democratico-liberale esiste non soltanto perché disciplinato da norme giuridiche. Esso vive anche di presupposti che lo Stato stesso – id est: l’ordinamento giuridico – non è in grado di assicurare. Ciò vuol dire che il diritto, anche quello costituzionale, è di per sé incapace di garantire il sicuro radicamento di una cultura democratica che funga da custode del valore sostanziale della democrazia.
Questa affermazione fa eco, in qualche modo, alla voce di Piero Calamandrei, secondo cui la Costituzione può trovare realizzazione unicamente nel divenire di un’esperienza, politica e sociale, informata ai suoi valori. Quest’ultima soltanto può disvelare in pieno la profondità della sostanza ontologica della nostra Carta, portando a realizzazione quegli obiettivi di eguaglianza, pace e giustizia sociale che i nostri costituenti hanno definito come presupposti necessari per la vita della Repubblica democratica (articolo 1 della Costituzione).
In una società pluralistica come quella presente, dunque, l’esistenza e la persistenza dello Stato democratico-liberale deve poggiare, oltre che su un minimo di omogeneità culturale, sulla consapevolezza diffusa del senso della libertà, intesa, prima che come diritto costituzionale, come fondamento della legge morale (Kant) e come premessa indispensabile dell’essere cittadino e individuo responsabile. Democrazia e responsabilità sono, dunque, fin dai tempi di Aristotele, fattori complementari inscindibili se si vuole evitare una degenerazione della forma di governo e si attende a un esercizio virtuoso della democrazia.
La responsabilità nello Stato democratico non consiste unicamente nell’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale (articolo 2 della Costituzione), ma richiede, per un verso, la percezione di ogni potere come svolgimento di un servizio nell’interesse generale; dall’altro, un controllo permanente, sia giuridico che politico, sull’esercizio del potere stesso.
Come è noto, nella democrazia potere e forza sono categorie ontologicamente distinte: il primo, per essere tale, non può che muoversi entro un reticolato normativo definito, che è quello dell’ordinamento giuridico. La forza, invece, resta per definizione esterna ed estranea al sistema delle categorie giuridiche. Ostile alla democrazia, oltre che pericoloso per la democrazia, è dunque ogni forma di personalismo politico, che anche solo nella comunicazione pubblica inclini a essere percepito come espressione di forza.
È bene invece che anche in momenti difficili e complicati come quello dell’emergenza sanitaria resti viva nella comunità la percezione di quei presupposti culturali-sostanziali di cui si è detto, così da mantenere sempre viva e presente in ogni individuo la sensibilità democratica, che è la prima forma di controllo dell’esercizio del potere.