“Incontrarsi e dirsi addio” è il titolo di un romanzo di Hans Fallada che ebbe un certo successo negli ultimi anni della Repubblica di Weimar. Domani il Governo e i sindacati aggiungeranno un capitolo alle cronache dei loro rapporti, poi si saluteranno con cortesie, ma senza affetto (un sentimento che non nasce quando ci si lascia se prima non c’è mai stato), né reciproca nostalgia. Poi l’ultimo a uscire spegnerà la luce com’è corretto fare in tempi di crisi energetica. Nelle ultime fasi dell’azione del Governo i rapporti con le confederazioni erano caratterizzati da incontri che si concludevano con un calendario di impegni da affrontare la volta successiva. Non è andata sempre così. I rapporti hanno conosciuto momenti importanti. 



Pochi giorni dopo l’insediamento del Governo Draghi, il ministro Renato Brunetta era riuscito a portare il Premier a sottoscrivere con Cgil, Cisl e Uil un accordo per la riforma del pubblico impiego che non solo aveva riaperto la stagione dei contratti, ma che si era tradotto in iniziative legislative – arrivate in porto – riguardanti aspetti significativi della Pa, come il reclutamento, i concorsi, la formazione, la copertura e il ringiovanimento degli organici, dopo almeno un decennio di blocco delle assunzioni e delle retribuzioni. 



Fu anche in seguito a quell’intesa che la questione della Pa si è posta, anche nel Pnrr, come il passaggio obbligato per lo sviluppo anche economico del Paese. Ma il Premier aveva capito che molti erano (e sono) i fattori che impediscono alla Pa di essere all’altezza dei suoi compiti. A questo proposito Draghi, nel suo intervento alla inaugurazione dell’anno giudiziario della Corte dei Conti, mise il dito nella piaga parlando a nuora (la magistratura contabile) perché suocera (quella penale) intendesse. “È necessario – disse il presidente del Consiglio – sempre trovare un punto di equilibrio tra fiducia e responsabilità: una ricerca non semplice, ma necessaria. Occorre, infatti, evitare gli effetti paralizzanti di quella che viene chiamata la ‘fuga dalla firma’, ma anche regimi di irresponsabilità a fronte degli illeciti più gravi per l’erario. Tenendo conto peraltro che, negli ultimi anni, il quadro legislativo che disciplina l’azione dei funzionari pubblici si è ‘arricchito’ di norme complesse, incomplete e contraddittorie e di ulteriori responsabilità anche penali”. 



Poi Draghi ha continuato: “Tutto ciò ha finito per scaricare sui funzionari pubblici responsabilità sproporzionate che sono la risultante di colpe e difetti a monte e di carattere ordinamentale; con pesanti ripercussioni concrete, che hanno talvolta pregiudicato l’efficacia dei procedimenti di affidamento e realizzazione di opere pubbliche e investimenti privati, molti dei quali di rilevanza strategica”. Stanno qui i veri motivi di quelle che pretestuosamente vengono definite le disfunzioni burocratiche. 

Assumendo la presidenza del Consiglio Draghi aveva imposto una svolta nella lotta alla pandemia attraverso una campagna di vaccinazioni di massa. Del resto, il Governo poteva contare sul Protocollo sulla sicurezza dell’aprile 2020; se gran parte dell’apparato produttivo ha potuto risollevare la testa, è stato merito di questi accordi tra Governo e parti sociali col principale obiettivo di rimettere in moto le macchine nelle officine nelle condizioni di maggiore sicurezza possibile; ma nella consapevolezza che il rischio zero è solo una chimera. Non è retorica ribadire che – anche in quella occasione tragica – i lavoratori hanno salvato le fabbriche da un nemico spietato e invisibile, pur consapevoli che ci sarebbe stato un prezzo di sofferenze da pagare. Poi, per motivi che non hanno mai trovato una spiegazione razionale questo incanto si ruppe sull’adozione del green pass, quando la Cgil adottò una posizione ambigua che diede adito alle proteste no vax. Sia pure con eccessiva cautela il Governo srotolò il groviglio del blocco dei licenziamenti esorcizzando l’allarme dei sindacati sul rischio di una macelleria sociale che si rivelò inconsistente. Poi c’era stata la fase eroica del Pnrr, che avrebbe potuto consentire quel salto di qualità auspicato da Draghi, ma lasciato cadere dai sindacati, in particolare dalla Cgil che ormai aveva “colonizzato” anche la Uil. Basti ricordare l’intervento di Mario Draghi all’Assemblea della Confindustria. 

Niente è più facile – sostenne allora il Premier – che nel momento in cui il quadro complessivo cambia, le relazioni industriali vadano particolarmente sotto pressione e invece bisogna essere capaci di tenerle. Le parole di Bonomi suggeriscono che si possa iniziare a pensare a un patto economico, produttivo, sociale del Paese. Ci sono tantissime cose di cui discutiamo continuamente che possono essere materia di questo patto. La definisco una prospettiva economica condivisa. Bisogna mettersi seduti tutti insieme”. Benché Draghi avesse derubricato la solennità del “patto sociale”, dai sindacati (con l’eccezione della Cisl) venne un sostanziale rifiuto. 

I rapporti proseguirono secondo una prassi che aveva un carattere informativo da parte del Governo e di un rivendicazionismo generico da parte dei sindacati. Nella preparazione della Legge di bilancio per il 2022 si realizzarono comunque specifiche intese su questioni delicate come la transizione in materia di pensioni, la decontribuzione, i bonus energetici. A dire la verità io ho sempre avuto l’impressione che un esperto e competente civil servant come Draghi non riuscisse nemmeno a capire le richieste dei sindacati, quasi sempre prive dei più elementari requisiti di fattibilità e di sostenibilità, messe in campo in base a valutazioni pseudo-etiche, non verificate neppure con la realtà. Nei primi incontri Draghi aveva persino abbandonato le riunioni lasciandole proseguire ai suoi ministri. 

In occasione dell’ultimo incontro – dopo il voto del Senato – Draghi aveva caricato di aspettative quello di oggi. L’essere il Governo in regime di ordinaria amministrazione ridimensiona quelle misure al minimo necessario e possibile. Probabilmente ambedue le parti dovrebbero compiere qualche riflessione autocritica. Il Governo è caduto senza che da parte dei sindacati (il riferimento è alla Cgil) fosse tentato un minimo di difesa e di preoccupazione per il vuoto di potere che si è determinato. Ma se Draghi il 20 luglio si fosse presentato in Senato sbandierando uno straccio di accordo con le organizzazioni sindacali, avrebbe avuto più chance nel difendere la continuità dell’azione del Governo. La palla è finita nel campo di Maurizio Landini. È evidente che il “campo largo” inclinato a sinistra che la Cgil aveva cercato di promuovere il 1° luglio con l’incontro all’Acquario Romano, è oggi diventato impossibile, vista la rottura irreparabile tra Pd e M5S. 

Che cosa sceglierà Landini: l’agenda Draghi di Letta o la “mèlenchonite” di Giuseppi?

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