Quello che sta accadendo in questi giorni in Spagna, dopo il risultato del 23 luglio delle elezioni legislative, ha qualcosa di déjà-vu che ricorda molto da vicino la situazione politica italiana dell’ultimo decennio. L’esito elettorale spagnolo non ha espresso un vero vincitore, o meglio, i popolari e il centrodestra hanno vinto le elezioni, ma non hanno ottenuto la maggioranza assoluta, che in Spagna è di 176 seggi. Tutto ciò ha determinato una sorta di stallo istituzionale, che la sinistra di Sánchez, l’ex premier, sta cercando di sovvertire a suo vantaggio, cercando in ogni modo di convincere gli indipendentisti del partito Junts per Catalunya di Carles Puigdemont (esiliato in Belgio dopo il mandato di arresto emesso dal tribunale di Madrid per i fatti del 2017) ad appoggiare un suo nuovo governo con la sinistra di Sumar, Erc e Pnv, il solito minestrone che ha governato con enorme fatica, in questi ultimi tre anni, la Spagna.
Quello che sta cercando di fare il Psoe, insieme alla nuova formazione di sinistra Sumar della vicepresidente e ministra del lavoro Yolanda Diaz, appare chiaro e cioè convincere in ogni modo, lecito o meno, i sette deputati di Puigdemont, che ha fatto già capire di volere molto in cambio. Sánchez ha già ottenuto una prima vittoria con la nomina della socialista Francina Armengol, una delle esponenti del partito più vicino proprio a Puidgmeont. Ha già concesso l’uso delle lingue catalane, basche e galleghe in tutte le sedi istituzionali ed ha fatto formale richiesta a Bruxelles perché siano addirittura considerate anche come lingue ufficiali a livello europeo. Infine si è detto pronto a prestare deputati e senatori a Junts per permettergli di formare un gruppo (questo gli sarà stato suggerito dalla sua amica Schlein del Pd italiano).
Si può certamente vedere in ciò un’assonanza con le manovre del Pd, prima di Renzi e poi di Franceschini, Zingaretti e Letta, per portare il partito al governo pur non avendo vinto nelle urne. Ma esiste un’importante differenza tra Sánchez e i vari leader di sinistra italiani che si sono succeduti in questi ultimi dieci anni. Almeno lo spagnolo ha avuto il coraggio, una volta appurata la crisi, dopo la dura sconfitta alle amministrative, di andare al voto. Coraggio che, invece, è totalmente mancato alla sinistra in diverse occasioni in questi anni.
Il re dopo un giro di consultazioni ha però voluto incaricare chi quelle elezioni le aveva vinte, e cioè il leader dei popolari Fejióo, il moderato che sa di avere davanti una mission impossible, stante il fatto che i baschi e i catalani che potrebbero permettere ai popolari di governare hanno già messo il loro veto al partito di destra Vox. Partito che ha mostrato, malgrado tutto quello che si pensa, responsabilità, perché pur essendo stato escluso dall’ufficio di presidenza della camera (con la colpevole complicità dei popolari) ha offerto i proprio 33 deputati al Pp senza chiedere nulla in cambio e nessun posto al governo. Questo proprio per cercare di facilitare un possibile accordo proprio con partiti come Erc, Pnv o Junts. Il 26 e 27 settembre è previsto il dibattito in aula e si vedrà allora se il moderato Fejióo sarà riuscito nel miracolo o se dovrà rinunciare.
Il voto spagnolo era stato visto anche come un importante test per le prossime elezioni europee, infatti è noto come la Meloni stia lavorando alacremente a un’alleanza in Europa tra conservatori e popolari per cercare di cambiare gli equilibri che hanno governato il parlamento europeo in questi ultimi dieci anni. “Vox è ciò che era Fratelli d’Italia alcuni anni fa – dice Nicola Procaccini, eurodeputato di FdI e copresidente dell’Ecr, uomo ombra della Meloni a Bruxelles -. A noi interessava che Vox si affermasse come forza credibile per governare e questo è quello che è accaduto. Ha perso voti perché in realtà i popolari hanno virato a destra”. Insomma, come dire che il progetto europeo della Meloni va avanti.
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