Dodici sono le monarchie sovrane in Europa. Sei sono di Paesi membri dell’Unione Europea: Belgio, Danimarca, Lussemburgo, Paesi Bassi, Spagna e Svezia. Poi, ora fuori dall’Unione, il Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord. Tutte sono parlamentari e con la successione ereditaria. L’ultima, con il lungo titolo, continua ad attrarre l’attenzione pubblica del mondo con maggiore chiasso.
Attrae per il suo sfarzo e per gli scandali, o meglio, le crisi di una famiglia che è fra le più privilegiate al mondo, ma certamente anche fortemente disfunzionale. Eppure una gran parte del pubblico inglese pensa ingenuamente alla sua monarchia come simbolo di stabilità, soprattutto (come disse una fra le mille persone recentemente intervistate), di questi tempi dove tutto sembra essere sul bordo di un irrefrenabile crollo.
Il crollo ora si chiama Harry, sul quale si dice di tutto da quando scelse Meghan Markle, per poi finire in auto-esilio in California. E dopo le loro salaci interviste americane (la prima con Oprah Winfrey, dove si parlò di pregiudizi nella corte), seguita dal documentario di Netflix (in cui l’accusa più forte è rivolta alla persecuzione dei tabloids inglesi, legati alla protezione della famiglia reale, con il fantasma di Diana, la madre, sempre presente), e infine la recente pubblicazione di Spare (termine usato dalla Institution per il principe “ruota di scorta” – la cui posizione inferiore era simbolicamente dimostrata, già da piccolo, anche nel concedere al fratello erede al trono la camera da letto più sontuosa e a lui una più modesta, ecc.).
Harry non ha risparmiato (spared, un bel gioco di parole che si può fare solo in inglese) quasi nessuno o nulla. Interessante la conclusione di un articolo del New Yorker di Rebecca Mead (The Haunting of Prince Harry, 13 gennaio 2023) che, dopo aver reso questo principe assai shakespeariano, conclude dichiarando con ironia nel suo elegante articolo che il libro, grazie a un talentuoso Orazio (J.R. Moehringer, famoso scrittore fantasma), “You might almost call it Harry’s crowning achievement”, lo si potrebbe quasi definire il coronamento del successo di Harry.
Ma non sono il brutto e il bello, la malizia e la bellezza che si dispiegano in questo non insolito teatro umano – voluto, racchiuso e rinchiuso, e ora microscopicamente rivelato – che ci colpisce; il fascino della monarchia che incanta il pubblico del mondo, in questo nostro secolo e millennio moderno. C’è chi adora i privilegi e il lusso, le loro corone e i loro gioielli preziosi, subito spudoratamente indossati dalla consorte del fratello ereditario, appena defunta la regina – corone, collane, spille e orecchini molti appartenuti a Diana – e tutte le loro proprietà sterminate, i palazzi e i castelli; chi pensa al costo per i cittadini del mantenimento di questa famiglia che sfoggia senza modestia alcuna il suo potere mediatico, e non solo quello; e chi accetta di inchinarsi per farsi piccolo di fronte a questi individui ancora semi-divinizzati, perché l’eredità con le sue ferree e arcaiche regole parla di un mondo nostalgico, tanto perduto quanto desiderato. Sogni a cui tenersi legati.
Sono sei i regni parlamentari in Europa, e poi c’è il Regno Unito. Ed ecco la parola chiave di questo regno: “unito”. Un regno che non ha più voluto far parte di una unione di nazioni, preferendo tenersi stretto ciò che rimane del suo antico impero, rappresentato da una famiglia “unita”, per e con la forza. Ma basta il simulacro per far vivere una realtà non più sostenibile? Il giovane reale di riserva dice: no. Ma noi cosa diciamo?
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