Con Lega e M5s nel governo dell’ex presidente della Bce si celebrano in Italia i funerali dell’antieuropeismo. Risultato reso possibile con la politica prima del “whatever it takes” e poi del “debito buono” delineata da Draghi. Ma una spina nel fianco del premier incaricato è la preoccupazione tra diversi leader politici che ben pochi rimpiangeranno i precedenti governi gialloverde e giallorosso. Infatti non è ancora nato il governo e già è concreto l’“effetto Draghi”: sale la Borsa, scende lo spread, l’Italia nelle reazioni internazionali – sia dei leader politici sia nei commenti dei mass media – è di nuovo nel gruppo di testa dell’Ue affiancando Germania e Francia e torna la fiducia per investimenti esteri. Con l’ex presidente della Bce si registra un salto di qualità che dà speranza – stando ai primi sondaggi – anche alla popolazione italiana.
Tra i preoccupati c’è comprensibilmente il premier dimissionario, Conte, che teme una prospettiva di crescente ridimensionamento. Subito dopo l’annuncio dell’incarico a Draghi, pensando di avere – così diceva – “in mano il Movimento”, aveva scatenato il reggente Crimi a testa bassa per il voto contrario. Ma la mattina dopo Di Maio lo smentiva.
Quindi, correndo ai ripari, abbiamo avuto la conferenza stampa dell’“avvocato del popolo” in mezzo alla strada davanti al “Palazzo” – alla Donald Trump – con giornalisti, fotografi e tv messi dietro un cordone che sembravano un assembramento negazionista e Conte a ripetere dieci volte che il governo doveva essere “politico”, autoproclamandosi capo politico del M5s e leader-federatore della sinistra italiana (M5s, Pd e Leu).
Una scena un po’ surreale: un “governo politico” dopo che il presidente della Camera aveva riferito al capo dello Stato che in Parlamento non c’era più una maggioranza politica. Non solo Conte, ma anche altri leader della maggioranza sfumata, come il segretario del Pd Zingaretti, non volevano ammettere le vere cause della crisi di governo.
Il Conte bis è caduto non per un mancato accordo sul rimpasto, ma perché Renzi ha rotto sentendosi le spalle ben coperte: l’Ue, a cominciare da Merkel e Macron, non avrebbero mai dato 209 miliardi di euro da gestire a un governo in cui non c’era nessuno esperto in economia e che continuava a varare provvedimenti di bonus a pioggia senza riforme e politiche attive. Anche sul Quirinale da tempo si concentravano le lamentele delle cancellerie per la disordinata gestione del Recovery Fund e persino il commissario Paolo Gentiloni da Bruxelles aveva lanciato ripetuti avvertimenti.
Le campane a morto sul Conte bis risuonavano a fine dicembre – prima della “lettera-mozione di sfiducia” di Renzi – in interventi come gli editoriali sul Corriere della Sera di Sabino Cassese, “compagno di banco” di Mattarella alla Corte Costituzionale, notoriamente voce ascoltata e speculare del Quirinale. Sul bilancio di previsione 2021 del ministro dell’economia Gualtieri così Cassese: “Apoteosi del corporativismo in salsa populista”, “repertorio indigesto”, “fritto misto”, “gli autori non hanno avuto paura del ridicolo”, ecc.
A ciò si è aggiunto il modo in cui Conte, dopo la crisi aperta da Renzi, ha cercato di evitare le dimissioni creando in Senato un nuovo gruppo parlamentare a suo sostegno. È emerso, in resoconti di quotidiani e tv, un Conte a capo di una sorta di novella P2, perfettamente legale, ma comunque un conglomerato di cardinali e monsignori, servizi segreti e guardia di finanza, studi legali paramassonici che si indaffaravano per reclutare singoli parlamentari di varia provenienza senza comune identità politica se non l’improvviso personale voto a favore del premier. Operazione peraltro fallita con il senatore Vitali in modi da “commedia all’italiana”.
Di fronte all’incarico a Draghi i fautori del Conte ter hanno pensato a una rivincita imponendo un “governo politico” con la formula “maggioranza Ursula” che vedesse protagonisti Pd, M5s e Leu con Renzi emarginato e Berlusconi irrilevante.
Ora l’ingresso della Lega azzera quello schema e, soprattutto, consente a Draghi e Mattarella di sbiadire la partecipazione dei ministri di partito. Quel che emerge da questa crisi è la non affidabilità di un sistema politico basato su questo maggioritario. L’Italia, come risulta dalle consultazioni Fico-Draghi, è un paese che ha bisogno di essere governato da un perno di centro: un maggioritario che vede contrapposti due poli dove da un lato estrema sinistra e dall’altro estrema destra hanno diritto di veto partorisce governi fragili, instabili e incapaci di una politica solidale di riforme, di risanamento e di competitività.
Sarebbe ora logico che – di fronte a un governo da Lega a Pd – ci fosse all’opposizione insieme alla Meloni sulla destra anche Leu sulla sinistra. Ma è difficile che il cosiddetto “partito cinese” – D’Alema, Di Maio, Zingaretti – si divida, dovendo assicurare la permanenza del loro “factotum” Arcuri in vari commissariamenti. Una grana da affrontare per l’europeista Draghi sarà appunto il solitario coinvolgimento dell’Italia nella Via della Seta.
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