C’è un iceberg che circola indisturbato nel grande mare dove viaggiano le flotte della distribuzione e dell’industria. Un iceberg che rischia di affondare qualsiasi Titanic lo incontri. Si chiama: “gestione dei rifiuti”. Una materia complessa che ha visto cambiare molte cose negli ultimi anni. Per questo è più che mai urgente un cambio di paradigma.



Ma cominciamo dalle nuove normative. Da febbraio 2022 sono stati modificati due articoli della prima parte della Costituzione. Sono l’articolo 9 (in corsivo trovate le parti modificate): “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione. Tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni. La legge dello Stato disciplina i modi e le forme di tutela degli animali”. E l’articolo 41: “L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana, alla salute, all’ambiente. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali e ambientali”.



Queste modifiche erano da tempo richieste dalla Comunità europea e Draghi le ha approvate immediatamente. Non di certo per un afflato ambientalista, ma perché sono necessarie per accedere ai finanziamenti del Pnrr.

Il ministero della Transizione ecologica, da tempo, organicamente a queste nuove direttive, sta pensando, realizzando e testando un nuovo Registro elettronico nazionale per la tracciabilità dei rifiuti. Si tratta di un sistema che il dicastero sta mettendo a punto per tracciare dove vengono prodotti i rifiuti in Italia, dove sono localizzati e per tracciare in toto il loro percorso. A questo portale dovranno essere inviati i dati digitalizzati, registri e formulari da parte delle aziende.



La normativa europea e quella italiana, che recepisce quella europea, non definiscono precisamente chi sono i trasportatori o i destinatari dei rifiuti, ma solamente chi sono i produttori dei rifiuti. Vale a dire coloro che producono il rifiuto e che sono responsabili fino al suo definitivo recupero o smaltimento.

Facciamo un esempio: sono un’azienda che produce gioielli. Devo gestire i metalli e le pietre preziose che tratto con acidi, che sono parecchio inquinanti. In base alla normativa europea, che è più stringente di quella italiana, sono responsabile dell’avvenuto definitivo recupero e smaltimento dei rifiuti che produco. Cosa significa? Che devo conoscere tutto il processo di smaltimento. Sono responsabile del rifiuto fino a quando non ho la prova che sia stato recuperato o smaltito.

Nel caso dei gioielli il produttore deve sapere se l’automezzo utilizzato per il trasporto dei rifiuti – in questo caso degli acidi – ha le certificazioni adatte per il trasporto di tali acidi. Perché se l’acido cade, o succede qualcosa in fase di trasporto, la responsabilità ricade sul produttore. Lo stesso vale per l’impianto di smaltimento: il produttore deve sapere se l’impianto ha l’abilitazione e l’autorizzazione corretta per trattare i suoi rifiuti.

Per quanto riguarda la Grande distribuzione, i rifiuti derivano dalla plastica e dal cartone degli imballaggi, dal legno dei pallet per la movimentazione della merce. Al loro interno hanno anche le gastronomie, quindi devono smaltire rifiuti organici.

Una questione strategica e dannatamente pericolosa. Faccio un esempio. Una catena della distribuzione ha degli immobili, frigoriferi e impianti elettrici, quindi deve fare manutenzione. Per fare manutenzione, dà l’appalto a una società esterna, che diventa il produttore dei rifiuti. Questa società esterna è quindi il produttore materiale, ma il produttore giuridico – quindi colui a cui afferisce l’attività di rifiuti – è la catena. Che ha quindi l’obbligo di vigilanza. Deve quindi verificare che la società esterna che ha in carico i frigoriferi faccia le cose a modo. La società esterna ha invece un altro obbligo, quello di direzione, e deve quindi verificare che il trasportatore e l’impianto a cui giungeranno i rifiuti abbiano le certificazioni e autorizzazioni corrette.

Il produttore giuridico vigila sul processo di smaltimento, e fa quindi una serie di controlli a campione sui rifiuti. Se qualcosa va storto o non viene smaltito correttamente, rischia sanzioni. Se un carico di plastica scompare, l’azienda rischia di prendere fino a 250 quote. La quota è proporzionale alla grandezza dell’azienda, e può arrivare fino a 1.500 euro. Le multe sono ammende, quindi sfociano nel penale. Si parla di traffico illecito di rifiuti. Da un lato, c’è la legge 152 che determina la gestione dei rifiuti; dall’altro c’è la legge 231 che riguarda la responsabilità di impresa.

Altro problema sono i Soa, Sottoprodotti di origine animale, che hanno una gestione meno tassonomica dei rifiuti. Un’azienda che produce salumi, formaggi o altro produce pochi rifiuti Soa, ma deve comunque controllarli, anche perché un eventuale coinvolgimento in un traffico illecito di rifiuti è un boomerang devastante sull’immagine aziendale. Di particolare i Soa hanno il fatto che non sono obbligati ad avere un registro. Le aziende produttrici, comunque, devono sempre controllare – tramite targa – che gli automezzi che si occupano del ritiro dei Soa abbiano le autorizzazioni adeguate.

Quello che fa scatenare il dolo, nel traffico illecito di rifiuti, è l’inosservanza. È esclusa l’inosservanza solo se l’azienda dimostra di aver realizzato ed efficacemente applicato un modello atto a prevenire reati come quello che si è verificato.

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