La data del 4 maggio ricorda purtroppo, a tutti gli sportivi in Italia e nel mondo, la scomparsa del Grande Torino. Sono passati esattamente 71 anni da quel giorno di primavera in cui l’aereo che trasportava la squadra, gli allenatori, i dirigenti e alcuni giornalisti si schiantò sul muraglione della Basilica di Superga: era il 1949, morirono le 31 persone a bordo tra cui tutta la squadra granata con qualche eccezione (quelli che erano rimasti a casa, per vari motivi). La squadra, prima in classifica all’epoca, fu proclamata vincitrice del campionato a tavolino: quasi a memoria di quel gruppo di campioni la Primavera, che giocò le ultime partite del torneo 1948-1949 contro i pari età delle rispettive avversarie, vinse il 100% delle gare rimaste. Fu il quinto scudetto consecutivo di un gruppo che sarebbe passato per sempre alla storia come il Grande Torino.
Cronache e mito hanno probabilmente contribuito ad amplificare la gloria di quella squadra. Si dice che il Grande Torino non perdesse mai, che fosse imbattibile, che nessuno potesse competere; naturalmente non era esattamente così (le statistiche ce lo ricordano) così come è probabile che il celebre quarto d’ora, quello in cui capitan Valentino Mazzola si arrotolava le maniche e i granata facevano piazza pulita degli avversari, non fosse chirurgicamente efficace in ogni singola occasione. Pure, Francesco Guccini avrebbe cantato anni più tardi ne La Locomotiva che “gli eroi son tutti giovani e belli”, verso che più di ogni altro riassume l’epica del ricordo onorifico e scolpito nel granito della leggenda; e allora è giusto così, è bene che il Grande Torino venga celebrato ogni anno come una squadra che ha fatto la storia del calcio. Perché l’ha fatta davvero, e pazienza se le sconfitte non sono state zero ma qualcuna di più, perché quello era davvero un gruppo pazzesco.
GRANDE TORINO, 71 ANNI FA LA TRAGEDIA DI SUPERGA
Del resto, alcuni fatti sono acclarati: quando per esempio l’Inter vinse la Coppa dei Campioni battendo il Real Madrid, Ferenc Puskas avvicinò un ventunenne Sandro Mazzola e, porgendogli la maglia, gli disse di volerla dare a lui perché aveva giocato contro il padre, e quello che Valentino aveva fatto parlava da solo. Ancora, la nazionale di quel periodo era sostanzialmente il Torino vestito di azzurro: c’entra poco il fatto che lo storico CT Vittorio Pozzo fosse un torinese doc e avesse anche allenato la squadra granata, c’entra molto di più la qualità dei giocatori che, messi in fila dal numero 1 al numero 11, formano ancora oggi una filastrocca che ha anticipato nei tempi l’Inter di Helenio Herrera o la Juventus di trapattoniana memoria. Pozzo, tra le altre cose, fu l’uomo che con il cuore straziato dovette aiutare le forze dell’ordine nel riconoscimento delle salme: fu psicologicamente aiutato da John Hansen, che da poco giocava con la Juventus e che, presentatosi sul colle in impermeabile bianco, omaggiò gli avversari del derby. A Pozzo aveva segnato quattro gol in una partita olimpica della sua Danimarca; con Pozzo condivise quel momento pesantemente indimenticabile.
Del Grande Torino e sul Grande Torino si è detto e scritto tanto, altro si dirà e scriverà. L’epopea di quella squadra può essere letta e studiata da parecchie angolature. Come dimenticare ad esempio che il pilota di quell’aereo si chiamasse Pierluigi Meroni, praticamente lo stesso nome della Farfalla granata che 18 anni dopo avrebbe perso la vita lungo corso Re Umberto? Ma il fato non aveva finito qui: alla guida dell’auto che avrebbe proiettato Meroni verso lo schianto fatale c’era tale Attilio “Tilli” Romero, che sarebbe poi diventato presidente del Torino e che già allora era tifosissimo granata. Questa però è un’altra storia; quella del Grande Torino è idealmente iniziata nel 1939, quando Ferruccio Novo diventò presidente del club. La svolta fu quella di circondarsi di collaboratori che seguissero vari aspetti della gestione (una novità per l’epoca): tra questi Antonio Janni, che poi dalla panchina avrebbe vinto il primo di cinque scudetti. Aveva giocato a Varese diventandone l’allenatore, e qui aveva incrociato un diciottenne Franco Ossola: i lombardi erano in Serie C, lui andò dal presidente e gli disse di acquistare quell’ala che prometteva tantissimo. Detto fatto: il primo acquisto di spessore del Grande Torino.
DA FERRUCCIO NOVO A VALENTINO MAZZOLA
Dalla Juventus arrivarono poi Alfredo Bodoira, Felice Borel e Gugliemo Gabetto. Di quest’ultimo dicevano che avesse già dato tutto: la storia ci avrebbe detto altro. Borel, che tutti chiamavano Farfallino, in granata sarebbe rimasto solo un anno per poi tornare a vestire la maglia bianconera ma, raccontano le cronache dell’epoca, fu lui uno di quelli che convinsero Novo a puntare tutto sul sistema, il modulo di gioco che avrebbe poi rivoluzionato il calcio. La squadra fu completata nel 1942, quando dal Venezia arrivarono due mezzali: uno era Ezio Loik, l’altro quello che sarebbe diventato il capitano. Valentino Mazzola ovviamente. Poi Valerio Bacigalupo, Romeo Menti, Aldo Ballarin, Virgilio Maroso, Giuseppe Grezar, Mario Rigamonti ed Eusebio Castigliano: ad alcuni di loro sono stati intitolati gli stadi delle rispettive città (Savona, Venezia, Brescia, Varese per quanto riguarda Ossola): anche questo ci dice di quanto il Grande Torino abbia scritto la storia del calcio in Italia, segnando una di quelle epoche che non moriranno mai.