C’è un tempo per la decisione e un tempo per la mediazione: Mario Draghi ha deciso senza cedimenti sugli uomini da collocare al vertice delle aziende a partecipazione statale (la Cassa depositi e prestiti, le Ferrovie, l’Ilva), ha salvato la complessa architettura che dovrà gestire il piano per la ripresa dalle insidie delle regioni, dei sindacati, dei singoli ministeri, pur con qualche concessione, ha mediato sul decreto semplificazioni, dando prova della capacità di smussare, sopire, rinviare, per andare avanti senza tentennamenti, ma con un ampio consenso.
Alla fine ha varato “la prima pietra miliare” (così l’ha definita Renato Brunetta) del Piano nazionale di ripresa e resilienza che fornisce gli strumenti per mettere a frutto le risorse concesse dall’Unione europea, a cominciare dagli investimenti per le infrastrutture che dovrebbero fare da volano alla ripresa. Non è stato agevole, nei giorni scorsi si è avuto un assaggio delle difficoltà a mano a mano che le scelte si fanno concrete e soprattutto quando le riforme debbono cambiare lo status quo al quale molti, troppi, sembrano abbarbicati. Dalla giustizia al mercato del lavoro, per non parlare delle tasse, sarà un percorso accidentato, perché sono in campo interessi forti e contrastanti, mentre non c’è consenso tra i partiti sulle linee di fondo.
Hanno cominciato i sindacati insoddisfatti del compromesso raggiunto sui licenziamenti. Il tentativo di prolungarlo ancora non è passato, ma la Cgil di Maurizio Landini, nonostante l’incontro di giovedì scorso, ha guidato la protesta contro lo sblocco e non si accontenta del paracadute concesso (poter ricorrere alla cassa integrazione gratuita se ci si impegna a non licenziare). Poi sono arrivate le regioni desiderose in entrare nella cabina di regia non come ospiti temporanei: tira e molla hanno ottenuto una seggiola per il presidente della conferenza delle regioni ogni qual volta saranno discussi interventi che intrecciano le “competenze concorrenti”. Si tratta di capire che cosa vuol dire, perché in teoria tutte le decisioni più rilevanti saranno trasversali e incroceranno gli enti locali. È giusto coinvolgere i territori, ancor più perché l’impianto resta verticistico, con una presenza permanente (quella del capo del governo) mentre tutti gli altri entrano ed escono a turno, nemmeno fosse una commedia di Feydeau. Ma attenzione che non si nasconda il solito gioco dei veti incrociati. Gli stessi ministri, del resto, non vorrebbero recitare la parte di comparse. Draghi ha ampi poteri d’intervento, anche sostituitivi ogni qual volta diventa concreto il rischio di ritardi. Ciò vuol dire che il presidente del Consiglio non farà solo il garante di ultima istanza, ma sarà a un tempo arbitro, allenatore, capitano della squadra di governo.
L’arte della mediazione è apparsa evidente sugli appalti. La questione più controversa che sembrava un ostacolo insormontabile è stata schivata. La quota del subappalto resta, ma sale dal 40% al 50% ed è comunque a tempo, durerà fino al 31 ottobre, poi dovrà essere abolita anche perché lo prevede una sentenza della corte europea e può diventare un motivo, non secondario, di contrasto con Bruxelles. Ma se le cose stanno così, perché non cambiare? Si tratta di una foglia di fico del tutto superflua. È scoppiata una battaglia attorno a un feticcio svuotato ormai di contenuto: istituito nel 2016 il codice degli appalti è stato modificato con ben 28 provvedimenti per un totale di 547 volte, sospeso in parti importanti nel 2019 dal governo giallo-verde e nel 2020 dal governo giallo-rosso.
Il decreto contiene una serie di norme per ridurre i tempi e le procedure, con un ampio uso del silenzio assenso e dei poteri sostitutivi (cioè il commissariamento), anche se non è passato il “modello Genova” nemmeno nella sua variante più blanda. I tempi per l’arrivo del commissario fissati in 15 giorni nella prima bozza, salgono a un mese, ma c’è la sensazione che fosse un esito prevedibile e previsto. Sulla Via (la valutazione d’impatto ambientale), altra questione controversa, avrà un potere speciale la commissione di 40 esperti istituita presso il ministero della Transizione ecologica che dovrà valutare i progetti del piano. Dunque avrà un ruolo chiave il ministro Roberto Cingolani. Si riducono i veti delle soprintendenze in particolare per la posa dei cavi delle telecomunicazioni e delle infrastrutture 5G.
Questo equilibrio tra decisione e consenso sarà ancor più complicato nei prossimi mesi, per ragioni di schieramento politico e di contenuto. S’avvicina a grandi passi il semestre bianco (ai primi di agosto) quindi non ci sarà più la spada di Damocle delle elezioni anticipate, ma s’avvicinano anche le amministrative che, in città come Roma o Milano, metteranno alla prova sia i partiti del centro-destra, sia la strana coppia Pd-M5S. Subito dopo il voto e in base ai risultati, cominceranno le grandi manovre per il Quirinale. Questioni come la giustizia o il fisco saranno determinanti per innalzare le bandierine (come aveva detto lo stesso Draghi), cioè per definire le rispettive identità davanti agli elettori.
Matteo Salvini ieri in una lettera al Foglio ha invitato Luigi Di Maio a dar prova del suo ripensamento, se non proprio della sua svolta, collaborando alla riforma della giustizia. Una proposta ragionevole che nasconde una sfida difficile: il ministro degli Esteri cambierà posizione per esempio sulla prescrizione, proprio mentre l’ex guardasigilli e suo collega di partito, Alfonso Bonafede, fa il viso dell’arme? Draghi sarà in grado di mediare? Ma innanzitutto, come la pensa il capo del governo?
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