Per tutto il 2021 il dibattito italiano in materia di politiche del lavoro è stato condizionato dalla priorità di offrire un paracadute alle centinaia di migliaia di lavoratori destinati a essere licenziati dalle imprese in uscita dal blocco dei licenziamenti.
Per questa finalità, oltre che prorogare tale blocco per tutti i comparti dei servizi, è stata prevista una corposa riforma degli ammortizzatori sociali per estendere il numero dei beneficiari, per aumentare gli importi dei sussidi, e sono state adottate sei misure di pensionamento anticipato per i lavoratori anziani coinvolti nei percorsi di riorganizzazione aziendale. In parallelo le indagini dell’Istat, e quelle dello stesso ministero del Lavoro, segnalavano il brusco aumento della difficoltà delle imprese di assumere lavoratori con livelli percentuali di incidenza sul complesso dei fabbisogni professionali richiesti mai registrati nel passato.
In un Paese normale, un tale divario tra la narrazione prevalente e la realtà meriterebbe di essere preso in seria considerazione, se non altro per aggiornare le letture dei fenomeni. Ma prendere atto che il sistema produttivo non è popolato solo da biechi imprenditori desiderosi di licenziare i propri dipendenti risulta particolarmente complicato per i protagonisti politici e sindacali della narrazione. Tanto da indurre gli stessi a mettere in campo un’opera di depistaggio, con l’ausilio di dati taroccati o quantomeno interpretati in modo discutibile, rivolta a giustificare l’indisponibilità dei disoccupati ad accettare le nuove offerte di lavoro per via della natura precaria e mal retribuita delle nuove offerte di lavoro.
Argomento che viene suggellato con l’ausilio del crisma del dibattito internazionale sulla Great Resignation che ha preso corpo negli Stati Uniti (le Grandi dimissioni volontarie da parte dei lavoratori che non sono disponibili a effettuare lavori disagiati, poco gratificanti e non adeguatamente retribuiti).
Tra le dotte disquisizioni utilizzate a sostegno di tale tesi, non è mancato l’elogio per il ruolo svolto dai sostegni al reddito nell’assicurare una sorta di salario di riserva che consente ai beneficiari di rifiutare le offerte di lavoro sgradite. Una tesi che finisce per confermare, in modo paradossale, le affermazioni di una parte significativa delle imprese che segnala i rifiuti delle nuove offerte di lavoro da parte dei beneficiari dei sostegni al reddito pubblici.
Il fenomeno americano, segnalato da uno studio effettuato da Anthony Klotz, docente universitario della Mays Business del Texas nel luglio 2021, e ripreso successivamente da altre indagini internazionali (Mckinsey e Microsoft), coincide con la forte ripresa dell’economia negli Stati Uniti e con livelli di disoccupazione precipitati ai minimi storici. E che è all’origine della crescita dell’inflazione anche nei mesi precedenti gli aumenti dei prezzi energetici. Condizioni che spiegano ampiamente, e al di là del complesso fenomeno delle dimissioni volontarie, gli aumenti dei salari e delle transizioni lavorative volontarie per la prospettiva di un miglioramento delle condizioni salariali e di lavoro, anche per la possibilità di beneficiare di altri redditi nell’ambito dei nuclei familiari. Tendenze che venivano sottolineate dallo stesso Klotz, che invitava i lettori a non trarre conclusioni affrettate riguardo il fenomeno analizzato.
Il tentativo di proiettare queste tendenze sulle dinamiche del mercato italiano, come ho sottolineato in un recente articolo, è semplicemente patetico. Il blocco dei licenziamenti in vigore per circa 20 mesi, con diverse gradazioni per i settori economici, e gli interventi dei sostegni al reddito per i lavoratori per renderlo sostenibile anche per le imprese, hanno completamente edulcorato la lettura delle dinamiche ordinarie del mercato del lavoro. Il contributo offerto dai contratti di lavoro a termine per il recupero del numero degli occupati precedenti la crisi Covid è del tutto conseguente alle perdite subite da queste tipologie di rapporti di lavoro nel corso del primo anno della pandemia e non è andato a discapito dei lavoratori a tempo indeterminato. Infatti, l’unica componente che registra ancora perdite occupazionali rispetto al 2019 è quella dei lavoratori autonomi.
La riduzione registrata nella durata media dei contratti a termine è principalmente motivata dalle graduali riaperture delle imprese che erogano servizi collettivi, dove strutturalmente si concentra la gran parte dei contratti a tempo per motivi di stagionalità. Ed è necessario considerare che tutto ciò avviene in un contesto di incertezze aggravate dall’aumento dei costi energetici e da un conflitto bellico nel territorio europeo.
Un recente analisi del Centro Studi nazionale dei Consulenti del lavoro, che confronta gli andamenti delle Comunicazioni obbligatorie presso il ministero del Lavoro nei primi tre trimestri del 2019 con quelli del 2021, ha messo in evidenza una crescita del flusso delle dimissioni volontarie (per giusta causa, giustificato motivo, recesso durante il periodo di prova) del 13,8%. Una tendenza meritevole di attenzione, ma ampiamente giustificata dal contemporaneo intervento dei sostegni al reddito in coincidenza del blocco dei licenziamenti, che ha razionalmente ritardato anche quello fisiologico delle dimissioni volontarie, e dalla quota dei lavoratori che hanno deciso di accettare nuove e migliori offerte di lavoro nella fase di ripresa delle attività produttive (circa 150 mila nel solo settore delle costruzioni).
L’impatto delle trasformazioni tecnologiche sulle organizzazioni del lavoro, sul ruolo delle risorse umane e sulle dinamiche della domanda e offerta di lavoro è un tema di grande rilevanza e che merita assolutamente di essere approfondito. Ma è intorno a queste interrelazioni, e sul come accompagnare le innovazioni tecnologiche con strategie aziendali e politiche del lavoro inclusive, che il dibattito italiano, denso di luoghi comuni, non si rivela all’altezza dei problemi.
Il primo luogo comune è rappresentato dalla convinzione che le nuove tecnologie siano ineluttabilmente destinate a generare una riduzione della quantità e della qualità del lavoro. Una tesi tutt’altro che confortata dai numeri. In termini quantitativi, i tassi di occupazione dei Paesi sviluppati sono arrivati al massimo storico. Su quello qualitativo è dimostrato come l’ondata delle innovazioni abbia provocato un forte aumento delle transizioni lavorative, con le conseguenze che ne derivano in termini di incertezze personali e collettive, e uno svuotamento del cosiddetto ceto medio delle professioni a vantaggio di quelle medio alte e di un aumento di quelle a bassa qualificazione. Ma l’impatto di questi fenomeni risulta altamente differenziato all’interno dei Paesi sviluppati. In molti di questi, l’aumento del tasso di occupazione e della produttività ha consentito anche una crescita dei salari medi e dei redditi familiari. Più in generale. l’ampliamento dell’utilizzo dell’intelligenza artificiale, e il decremento demografico della popolazione in età di lavoro, sta fortemente rivalutando l’importanza degli investimenti sulle risorse umane e da parte delle imprese l’obiettivo di aumentare la produttività prevale su quello di contenere le retribuzioni dei lavoratori.
Nelle classifiche internazionali relative al tasso di occupazione e di crescita dei salari, il nostro Paese risulta tra i peggiori in assoluto per il basso tasso di impiego delle risorse umane, per la qualità del mercato del lavoro, per gli indici di produttività e di crescita dei salari.
Tutto ciò non è dovuto all’eccesso delle innovazioni tecnologiche o alle conseguenze della globalizzazione. I deficit di produttività e di occupazione e gli indici di precarietà delle condizioni salariali e lavorative sono concentrati nei comparti dei servizi protetti dalla competizione internazionale. Le migliori performance in termini di investimenti, di ricerca e sviluppo, di produttività e di crescita dell’occupazione, risultano generate dalle multinazionali di proprietà estera e da quelle italiane. Il rammarico, semmai, è quello di avere una scarsa attrazione di investimenti internazionali, e un sottoutilizzo del risparmio interno potenzialmente destinabile agli investimenti.
La narrazione sulla diffusione lavoro povero, che ci viene propinata in continuazione, trascura scientemente il fatto che milioni di lavoratori fanno prestazioni sommerse, doppi lavori, prestazioni non dichiarate od occasionali (per un equivalente di 3,5 milioni di posti di lavoro a tempo pieno secondo l’Istat). Buona parte di questi lavoratori dipendenti e autonomi risultano poveri solo per il fisco, dato che beneficiano di redditi reali superiori alla media dei colleghi, e per tale ragione beneficiano anche delle prestazioni assistenziali negate a coloro che pagano regolarmente le tasse.
Non siamo in grado di ponderare le conseguenze finali di quanto sta succedendo nello scenario internazionale, ma possiamo stare certi del fatto che qualsiasi ipotesi di riposizionamento delle dinamiche della produzione su scala globale è destinato a radicalizzare le tendenze precedentemente descritte.
Di fronte all’intensità e alla complessità di queste sfide assistiamo imperterriti alla riproposizione della redistribuzione del reddito quale panacea di tutti i mali. Anche a prescindere dalla crescita del reddito, con la proposta di introdurre una patrimoniale “sui ceti che hanno guadagnato nel corso della crisi”, come ama affermare, come un disco rotto, il Segretario della Cgil Landini.
In maniera surrettizia si punta a sancire una sorta di diritto al reddito a prescindere dal dover lavorare. Una riedizione edulcorata della teoria del salario variabile indipendente che negli anni ’70 il suo predecessore Luciano Lama aveva definito come un’immensa sciocchezza. Una prospettiva improponibile per qualsiasi Paese sviluppato, e semplicemente demenziale per le condizioni del nostro. Ma comunque capace di impallinare qualsiasi proposito di impostare una politica del lavoro degna di questo nome da parte della sinistra politica e sindacale neo populista.
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