Olé, olé, olé: vai col giraposto. A leggere certi articoli c’è da trasecolare, o da transcolorare, nel senso di impallidire, sbiancare, sentirsi mancare, svenire, avere cali di pressione arteriosa.
Poi uno pensa: in fondo l’ha scritto Repubblica, notoriamente la voce della sinistra radical chic e anti-operaia. Ci si aggiunga che quando si fa un ragionamento generale si rischia facilmente di scivolare sul generico e di parcheggiare sull’insulso. Ma certo che leggere che il Pil al 6,5% si traduce in un incremento del desiderio di cambiare lavoro e in una sorta di impulso collettivo a trovarsi un’occupazione “più bella, più adeguata, meno stressante” genera sconcerto, stupore e in qualche misura melanconica depressione nel lettore e poi anche in chiunque abbia una vaga idea di com’è il mondo reale e di quanto questo confligga con la fotografia instagrammatica che ne forniscono le statistiche.
Il numerino magico è 6,5%: il nostro Pil, l’italico Pil a livelli cinesi. Noi sì che abbiamo la magia nelle mani: siamo italiani, siam forti. Quest’anno ci va bene, c’abbiamo pure vinto il campionato di calcio. Solo che l’abbiamo vinto ai rigori, dopo partite conquistate con ampio ricorso all’ipovedentissimo italico stellone, che ha tolto di mezzo altri concorrenti, dalle qualità almeno pari alle nostre.
Ergo. Ma il 6,5% è davvero un record, un bene o è un numero da media trilussiana? Eppure il punto non è neppure questo, quanto invece lo è l’aver collegato la crescita record con un improvviso desiderio dell’italiano medio di mollare il vecchio lavoro per sfidarsi in nuove affascinanti avventure. Il mercato del lavoro in stile Mulino Bianco, insomma: salta la scrivania e lanciati nella coltivazione ché, notoriamente, come sanno bene tutti i fighetti della Milano naviglica, la terra è più alta della scrivania e si fa quindi meno fatica a piantare i legumi che a stare seduti davanti al Mac!
Capiamoci.
Noi stiamo parlando dei poveracci mica di quelli che possono permettersi di mutare occupazione passando dal marketing internazionale all’agricoltura biologica previa milionaria acquisizione paterna di qualche vigneto nel Chiantishire! Se veniamo a quelli che un titolo di studio l’hanno preso a fatica, che hanno una formazione specifica che consente loro al massimo di leggere le etichette, che finora hanno nel curriculum al massimo posti da operaio generico o da mansioni bassine bassine, eh beh, per questi il cambiare lavoro non attiene al desiderio di trovarsi meglio o al bisogno di svolgere mansioni meno lontane dai propri skills. Attiene invece alla necessità di reperire un altro posto dove guadagnare quei mille euro al mese sui quali si fonda la politica familiare di sopravvivenza.
Che Draghi abbia fatto molto non si discute. Che Conte avesse fatto molti (danni) altrettanto: ma che il salto dal secondo al primo abbia trasformato l’Italia nel riflesso mediterraneo della Dubai da bere, nel moderno Paese dove scorrono latte e miele e sui cui alberi crescono i prosciutti (rigorosamente crudi, e di Parma; meglio ancora se di culatello trattasi, come si conviene ai ben dotati), non ci crede nessuno.
Cambiare lavoro in un mercato fluido, in massima parte per gli italiani non è una scelta ma una necessità, anzi un dramma! Avete mai provato a cercare lavoro se non avete un CV iperspecialistico e pluriinteressante? Difficile trovare un’occupazione adeguata vero? E cosa direste allora se aveste un CV pieno di impieghi in cooperative di pulimento?
Il punto su cui non ci sentiamo di seguire il tasso di positività (nel senso di ottimismo, mica di Covid) che si registra e si respira in queste ore è che come al solito chi scrive ha l’impressione che dopo aver ascoltato le lacrime dei ricchi e dei tutelati, ore se ne registrino i cambi di umore. La verità è che trovare un’occupazione in Italia resta difficile, reperire poi un posto adeguato in certe regioni è quantomeno complesso per non dire francamente avventuroso. Lasciare una liana certa prima di aggrapparsi a un’altra è un esercizio che si possono permettere poche categorie di persone: chi sa di atterrare sempre e comunque sul morbido; chi è legato a una corda che ne impedirà il rovinoso precipitare al suolo; chi è preda di manie suicide. Per gli altri più che il CV contano, nell’ordine fattori come: le conoscenze paterne; le conoscenze materne (intercambiabili con quelle che precedono); le conoscenze familiari. A questo si aggiunga, corsia riservata ai giovani, la disponibilità a trascorrere in stage (non pagati, of course) brevi periodi di tempo compresi tra i due o i tre anni. Capirete che il desiderio di mollare un lavoro (il che poi in primis presuppone, per la legge della logica, che uno ce l’abbia) sia un sentimento diffuso soprattutto in poche limitate fasce di popolazione.
Forse sarebbe venuto il momento di cominciare a ragionare in termini diversi.
Abbiamo da recuperare al lavoro del domani intere popolazioni italiche offrendo una vera formazione in luogo di quella pastinetta scipita che viene loro ammannita (quando lo è) in troppe realtà: la formazione professionale e un sistema duale vero, una formazione continua, una transizione guidata e affiancata da un’occupazione a un’altra invece del Far West sono interventi improrogabili. Avendo di mira magari l’interesse ultimo delle persone (che è quello di essere felici) e non gli obiettivi nell’immediato di aziende che troppe volte hanno una programmazione arboricola (cioè con orizzonte che ha di vista al limite la fine della corrente stagione meteorologica). Forse è giunta l’epoca di guardare oltre il nostro naso e magari perfino di osare andare oltre la notoriamente iperestesa canapia di Savinien Cyrano de Bergerac, e di osare chiedersi se non sia arrivato il momento per i nostri giovani di sfidare il mondo e di confrontarsi con il vero mercato del lavoro del futuro, che per gli under 30 è sicuramente quello europeo.
Certo le aziende si lamenteranno di simile posizione perché poco nazionalistica, ma è questa loro un’affermazione che noi, andreottiani della prima ora, traduciamo così: se ce li portate via noi come faremo a reperire manodopera ben formata a costi bassi? Lasciate che i giovani italiani vengano a noi e ci penseremo noi!
Ma noi abbiamo a cuore le sorti dell’industria nazionale e allora (e a loro) diciamo: cominciassero a non sopravvivere scommettendo solo sul costo del lavoro e invece accettando la sfida alta della qualità e della competenza. Magari si impegnino a non usare i giovani dottorandi e dottorati come factotum a basso (o nessun) costo. Non vorremmo infatti che il vero paradigma dell’occupazione giovanile nella Penisola finisca per essere quello descritto nel simpaticissimo e curiosissimo film (comico di suo, ma si sa: ridendo castigat mores!) “Smetto quando voglio“. In fondo, direbbe qualcuno, pure quella banda di giovani trenta/quarantenni scapestrati finì per cambiare lavoro perché dai, diciamolo, tanto lo sappiamo tutti che lo studio e la competenza non contano nulla!