Ho letto ieri su Il Sussidiario due articoli molto interessanti: il primo a firma di Natale Forlani sugli effetti del declino demografico; il secondo di Alberto Beggiolini sulla Great Resignation. Forlani è partito dalle relazioni e dal dibattito degli Stati generali sulla natalità, convocato dal Forum delle famiglie e dalla Fondazione per la natalità. Beggiolini ha commentato il rapporto mensile di Veneto Lavoro nel quale viene segnalata un’ecatombe di dimissioni (un fenomeno che riguarda più o meno tutte le regioni del Centro-Nord, che non ha ancora mutato segno nonostante “l’aria che tira” e i problemi pre-esistenti che la guerra in Ucraina ha sicuramente aggravato) e una tendenza accentuata dei giovani a rifiutare il lavoro disponibile, anche se la narrazione “politicamente corretta” preferisce soffermarsi sulla ricerca di altri stili di vita. La conseguenza pratica si traduce in un alto numero di dimissioni volontarie che supera di gran lunga quello dei licenziamenti e che ha colto di sorpresa gli stessi sindacati, i quali dopo aver imposto un blocco dei licenziamenti per 500 giorni si aspettavano, allo scadere del divieto, una vera e propria mattanza sociale, con milioni di lavoratori sbattuti sul lastrico.



A questo proposito – scrive Beggiolini – “facendo le proporzioni, è un record. L’Osservatorio BenEssere e felicità (il primo strumento di misurazione della felicità italiano che raccoglie dati da 1.314 lavoratori sia autonomi che dipendenti), nel suo rapporto 2022, sostiene che quasi la metà dei Millennials, ovvero della generazione di giovani nati tra la metà degli anni ’80 e i primi anni del 2000, sarebbe ‘alla ricerca di nuove opportunità di lavoro e ha in mente di cambiarlo entro un anno’. È quella che passa per ‘Great Resignation’ (le grandi dimissioni), un fenomeno nato negli Stati Uniti – prosegue l’autore – ma arrivato praticamente subito nel Vecchio continente, fiorendo sul terreno fertile dei lockdown da pandemia, spartiacque che ha dato modo e tempi per fare un punto e riconsiderare le proprie priorità”.



Certo, le mode corrono al di là dei mari e degli oceani. E non è la prima volta che una nuova generazione crede di aver inventato una vita diversa, soprattutto dopo le grandi tragedie della storia (come nel periodo tra le due guerre mondiali del secolo scorso). Non c’è bisogno di scomodare i Millenials, quando ogni generazione ha avuto i suoi “figli dei fiori” che rifiutavano la società dei padri. Ma almeno quel rifiuto si concretizzava nella ricerca di uno stile di vita coerente, “on the road” o in comunità che si accontentavano di provvedere ai bisogni essenziali. Per i loro coetanei interessati a condurre una vita normale, l’autonomia personale, la separazione dalla famiglia era considerato un obiettivo di emancipazione, un passaggio necessario per diventare adulti. Anche sul piano politico erano i voti delle nuove generazioni a fare la differenza, per non parlare dello strappo prodotto dalle grandi migrazioni interne, che negli anni ’50 e ’60 del secolo scorso cominciarono a sostituire le secolari immigrazioni di nostri compatrioti in tutti i continenti. 



Il Millenial che antepone la qualità della vita al lavoro, quasi sempre, alla sera rincasa in famiglia, dove può contare per il vitto, l’alloggio e argent de poche. Peraltro non ha neppure più il problema di condurre la fidanzata “all’erba”, perché ha a disposizione la casa paterna o materna. Ovviamente, io tendo a estremizzare, ma la realtà è anche questa e non dobbiamo mascherarla mettendola in sociologia. È bene, tuttavia, tenere ben presente una regola di vita: chi rinuncia al lavoro, al reddito e al benessere, lo fa perché se lo può permettere. Perché dispone del reddito (magari di altri) e del benessere senza bisogno di lavorare. Non sarebbe il caso di spiegare il fenomeno delle “grandi dimissioni” in maniera più laica e, se vogliamo, più banale? Se, soprattutto in certe aree del Paese, la domanda di lavoro è superiore – per tanti motivi – all’offerta, se durante il lockdown sono state sperimentate forme più flessibili di lavoro (vedi il ricorso allo smart working) nelle quali è il risultato che conta per il datore, non il tempo messo a disposizione dal dipendente, perché fare tante storie se giovani e meno giovani vanno alla ricerca di opportunità lavorative migliori? 

Quando nel 2020 Pietro Ichino pubblicò per Rizzoli il saggio “L’intelligenza del lavoro. Quando sono i lavoratori a scegliere l’imprenditore”, venne sommerso dalle critiche perché in Italia è “politicamente corretto” rappresentare una società di lavoratori sfruttati, di poveri in canna, di giovani disperati che passano da un contratto a termine a un altro. Ichino osava “rovesciare la prassi”, allo scopo di ribadire che la vera tutela del lavoratore e la sua occupabilità dipendono dalla sua professionalità. Impariamo allora a distinguere le differenti situazioni, tra chi cerca – e ne ha la possibilità – di migliorare la propria posizione lavorativa e chi rifiuta il lavoro, con il pretesto che non è retribuito a sufficienza. Perché a questo punto entra in ballo Natale Forlani. 

Un Paese in crisi di natalità – non solo per motivi economici, ma sociali e culturali – è destinato ad arrivare a un momento in cui il turn over avviene solo in direzione dell’uscita; e la manodopera non si trova perché non c’è. È sufficiente un ragionamento elementare anche se schematico: vanno in pensione e continueranno ad andarci nei prossimi anni lavoratori che, tra le tante altre caratteristiche, appartengono a generazioni che vantavano 800mila nascite all’anno; vengono sostituite da generazioni già dimezzate in partenza. A parte gli evidenti effetti devastanti sul fronte pensionistico, lo scarto è destinato a porsi sempre di più anche sul versante del mercato del lavoro. In articolo pubblicato su la voce.info l’autore (Francesco Armillei) si pone una domanda cruciale per la comprensione del fenomeno: quanti lavoratori, dopo le dimissioni, trovano un nuovo lavoro, visto che si presume che siano questi i motivi della risoluzione volontaria del rapporto di lavoro? L’altra domanda riguarda quali cambiamenti ci siano stati dopo la pandemia rispetto ai trend precedenti.

In media, circa il 35% dei dimessi dal 2017 in poi comincia un nuovo lavoro entro una settimana dal termine del precedente, un valore che inizia a salire già alla fine del 2020, in coincidenza con la seconda ondata di Covid-19, raggiungendo un picco del 40%. Si mantiene poi stabilmente – prosegue l’articolo – sopra la media degli anni passati per tutto il 2021. Una dinamica simile, sebbene su livelli diversi, si osserva anche considerando l’orizzonte temporale a un mese e a tre mesi. Interessante notare l’assenza dell’aumento a fine 2020 per l’orizzonte temporale a tre mesi, segno che in quel periodo si sono accorciati i tempi tra un lavoro e l’altro (che sono passati in media da 13 a 10 giorni, tra il 2017-2019 e il 2020), ma alla fine dei conti non è cambiata la quantità di lavoratori che hanno ripreso a lavorare come dipendenti dopo le dimissioni. 

Scomponendo – sottolinea l’autore – questi risultati rispetto alle caratteristiche demografiche dei lavoratori, si nota che il tasso di rioccupazione a un mese degli uomini è strutturalmente più elevato di quello delle donne di circa 10 punti percentuali e che mentre le donne hanno registrato un aumento a partire dalla fine del 2020, per gli uomini l’incremento è arrivato solo nel 2021. Sul fronte anagrafico, i lavoratori tra i 40 e i 49 anni sono quelli con il tasso di rioccupazione a un mese più elevato (in media intorno al 55%, con picchi del 60% nel 2020), seguiti dai 30-39enni e poi da 15-29enni e 50-64enni. Da ultimo, il tasso di rioccupazione a un mese post-dimissioni cresce nettamente al crescere del titolo di studio, ma l’aumento a fine 2020 è stato trainato esclusivamente dagli individui con un titolo di studio post-secondario, che invece nel 2021 non hanno visto un significativo incremento rispetto al periodo pre-pandemico, a differenza di chi invece è in possesso di un titolo di studio secondario o inferiore. 

Sembra proprio – per concludere – che, dimissioni o no, la traiettoria vada, nella prevalenza dei casi, da un posto di lavoro a un altro.

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