Si moltiplicano articoli e commenti sui recenti disastri ambientali, ma si parla poco delle imprevidenze e dei comportamenti sbagliati che ne moltiplicano le conseguenze. Per esempio, se i social mostrano immagini impressionanti (subito catalogate come “bombe d’acqua”) i danni provocati si moltiplicano quando, è stato il caso di Milano, migliaia di tombini al momento del bisogno sono intasati per l’incuria e la cattiva manutenzione. Così come spesso gli alberi cadono nelle zone urbane causando disastri soprattutto perché nessuno per anni si è preoccupato di mettere in atto una efficiente potatura.
Sembrano cose ovvie, ma se un platano resta senza rami bassi perché impediscono la circolazione, ma poi lo si lascia sviluppare con una chioma impressionante, si crea una situazione di grande instabilità. Vale per il platano, che però normalmente ha almeno radici profonde, ma ben più problematica è la situazione per un’altra essenza diffusa ovunque, quel pino marittimo (“pinus pinaster”) che ha radici fragili, superficiali ed instabili a dispetto delle chiome “a tappeto”. E’ tipico della macchia mediterranea ma, piantato sul ciglio di una strada o in un parcheggio, quando diventa grande è una bomba ad orologeria, sia perché non ha spazio per crescere (e infatti presto solleva l’asfalto) sia perché le sue radici corrono in superficie, pronte a spaccarsi se un colpo di vento più violento del solito sconvolge la chioma sottoponendo il tronco a pressioni straordinarie.
Seguono rotture nette, improvvise, con ribaltamenti sulle vetture parcheggiate nei pressi o sulla testa di chi ha la sfortuna di passare in quel momento. Aggiungiamo la scarsa permeabilità del terreno: un parcheggio raccoglie in alcuni tombini una grande superficie di pioggia che spesso si concentra in pochi minuti, non viene assorbita ma si trasforma in un lago in caso di area pianeggiante o in un fiume impetuoso se l’area è scoscesa moltiplicando così gli effetti dei danni, soprattutto quando foglie, fango e immondizia sigillano i tombini. Dove può finire, d’altronde, la sabbia sparsa sull’asfalto se non, appunto, nei tombini ai lati di una strada? L’altro verso della medaglia sono gli incendi che scoppiano non appena cresce il rischio per il vento o la siccità: ancor di più qui dobbiamo renderci conto che non c’entra nulla il caldo eccezionale.
La gran parte degli incendi vengono infatti innestati da piromani che spesso non sono solo delle persone psichicamente alterate, ma delinquenti che scientemente, per motivi economici e speculativi, danno fuoco ad aree protette, boschi e zone prossime agli edifici. Gli inneschi avvengono molto spesso contemporaneamente in più punti per rendere problematico l’intervento dei soccorsi. Circolano video di droni che colgono sul fatto, dall’alto, gli esecutori materiali di questi incendi (di solito impuniti) e credo sia ora di pene esemplari rendendo pubblici i nomi dei colpevoli e l’entità delle pene, che non possono essere lievi visto il disastro ambientale, che si perpetua nel tempo, causato da questi sciagurati.
Un bosco che brucia non solo distrugge essenze vegetali e uccide gli animali del sottobosco, ma espone il terreno per molti anni al degrado, alle frane e al dissesto idrogeologico. Spesso alla radice di questi gesti c’è un vero e proprio piano strategico per poter intervenire successivamente nei lavori di ripristino e rimboschimento con un vorticoso giro di appalti e di denaro. Aspetti che non vengono spiegati bene al pubblico mentre si lascia intendere che sia il caldo a dar fuoco alla boscaglia, mentre i fenomeni di autocombustione sono statisticamente minimi. A tutto ciò si aggiunge un quadro desolante di mezzi disponibili in chiave antincendio: pochi e malridotti Canadair, un ridotto numero di aree di potenziale caricamento aereo, mezzi insufficienti in molte regioni e, purtroppo, la sciagurata concomitanza di chiamate che (guarda caso) improvvisamente giungono da diverse aree di uno stesso territorio riducendo la possibilità di soccorsi ma moltiplicando i sospetti sulle azioni dolose.
Tra l’altro un’area bruciata diventa ancor più facilmente oggetto di un nuovo incendio in futuro e, se non c’è dubbio che gioca un ruolo importante la siccità, l’estrema infiammabilità del sottobosco in alcune stagioni o il vento che moltiplica il rischio, in partenza c’è quasi sempre la volontà umana o, in alcuni casi, la sbadataggine comunque colposa. Infine il capitolo prevenzione comportamentale: in Australia è obbligatorio per ogni famiglia tenere pronta nel proprio garage una valigia con tutto il necessario per una evacuazione immediata e i primi soccorsi in caso di allerta meteo o incendio, da noi in questi casi non si sa che fare e la gente continua a rifugiarsi sotto un albero in pieno temporale. I principi di protezione civile dovrebbero essere materia scolastica obbligatoria, nessuno ci ha ancora pensato?
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